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Umorismo nelle traduzioni professionali.

8.717 Words / ~38 pages sternsternsternsternstern_0.5 Author Yannik P. in Jun. 2012
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Applied Linguistics

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D`annunio Pescara

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2011

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Umorismo nelle traduzioni professionali.

Parte Prima: Questioni Preliminari


1. Il comico: umorismo e ironia come concetti mobili


La storia della letteratura, così come quella dell’uomo, ha da sempre riconosciuto la capacità di ridere, e del far ridere, come un’importante ed efficace forma di comunicazione.

In epoche passate il campo del comico, a partire da Platone, è stato spesso messo in opposizione a quello del tragico e, essendo quest’ultimo considerato quale elemento prioritario, la comicità veniva abitualmente definita come il nonnulla e per tanto esclusa da tutto ciò che rappresentasse il sublime e il bello; dovremo aspettare il XIX secolo per far sì che da questa concezione ne derivi una diametralmente opposta, quella che, legata proprio al concetto di estetica, designava la presenza di due tipi di comicità, definiti come “comicità alta” e “comicità bassa”.


Un aspetto del comico è inerente al campo dell’estetica, intesa come scienza del bello, e questa comicità entra nel concetto di bello; ma c’è anche un altro aspetto del comico, che cade al di fuori dell’ambito dell’estetica e del bello, e che costituisce qualcosa di molto basso[1].


Attivo sostenitore di questa teoria fu Kirchmann che divideva la sfera del comico in “comico fine” e “comico volgare”; secondo il positivista, la comicità inglobava due distinti aspetti, a seconda delle categorie sociali, definibili come comicità di ordine superiore e comicità di ordine inferiore, accomunate, però, da una stessa matrice, vale a dire una qualche azione insensata e assurda:

“Se questa assurdità é in misura elevata [ .] il comico è volgare, se invece l'assurdità è più coperta [ .] il comico é fine”[2]. Venivano quindi a delinearsi le differenti estrazioni sociali alle quali attribuire le diverse tipologie di comicità: quella alta e fine per gli aristocratici, quella bassa e volgare per la plebe. All’interno dei suoi studi su queste differenziazioni Propp affermava:


In molti casi, per dividere la categoria estetica («superiore») del comico da quella extraestetica («bassa»), si crea una terminologia diversa. Nel primo caso si parla di «comico» e nel secondo di «ridicolo». Noi non faremo questa distinzione; sono piuttosto i fatti che devono dirci se questa suddivisione sia o no legittima. Noi riuniamo «comico» e «ridicolo» sotto il termine e il concetto unico di comicità[3].


Senza entrare troppo nel merito della questione, poco importante in termini di “metodologie traduttologiche”, porrò come base di partenza l’invalidità di questa distinzione, definendo come “comico” tutto ciò che provoca una reazione di ilarità, senza per questo pretendere di avanzare l’ipotesi che differenze nel campo del comico non esistano.

Trovo, contrariamente, interessante proporre una serie di definizioni che possano caratterizzare il comico in rapporto all’umorismo e l’ironia, per delineare successivamente gli aspetti di questi due concetti.

L’umorismo e l’ironia sono due elementi che da sempre hanno riscontrato un notevole utilizzo nella socializzazione, così come nella trasmissione di informazioni.

Riconoscendoli come tali non sono, quindi, mancati studi e definizioni che ne hanno tentato il delineamento e, in alcuni casi, il restringimento negli usi. Non sono pochi, di fatti, i contrasti e, talvolta, le contraddizioni a cui hanno dato luce i numerosi dibattiti dei linguisti e gli impieghi fattine dagli scrittori nelle loro produzioni.

Sfogliando il dizionario Zingarelli alla voce “comico” è possibile leggere: “Che è proprio della commedia. Genere comico contrapposto al tragico, nell'antica classificazione dei generi letterari. Che ha comicità, che suscita il riso: cogliere il lato comico di una situazione”[4]. Per la parola “umorismo”, invece, troviamo: “modo di osservare il mondo e di rappresentarlo con racconti, battute, osservazioni, opere d'arte che ne mettano in risalto gli aspetti incongruenti, paradossali, comici, assurdi, ridicoli”[5].

Cercando il termine “ironia” viene riportato: “particolare forma di finzione che consiste nell'esprimere a parole il contrario di ciò che si vuol significare, in modo tuttavia da lasciare intendere (soprattutto con l'intonazione della voce) il vero pensiero. Frequente nel parlare comune, per deridere o rimproverare o constatare un evento deplorevole.

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L'ironia può essere bonaria, sottile, arguta, fine oppure pungente, beffarda, pesante addirittura feroce. Oppure l'ironia viene definita come svalutazione eccessiva, reale o simulata di se stessi, del proprio pensiero oppure come umorismo sarcastico e beffardo”[6].

Come si può notare dalle definizioni, questi elementi sembrano essere legati da un unico filo conduttore, quello della risata, che può essere ora pungente, ora beffarda ora amichevole. Verrebbe, quindi, da dedurre che l’umorismo sia contenuto nel campo della comicità e che fondi la sua realizzazione sulla ricerca della situazione comica, delineandosi come una forma del sentimento comico.

A sua volta, anche l’ironia condivide una parte dell’umorismo, laddove quest’ultimo acquisisca toni più pungenti. Tuttavia, queste tesi perderebbero ogni validità se rapportate alle opere di alcuni scrittori come Pirandello che, ne “L’umorismo”, differisce quest’ultimo dalla comicità in senso stretto. Umorismo e ironia sono, di fatti, due termini complessi: seppur entrambi richiamino una molteplicità di campi semantici condivisi, non mancano differenze e caratteristiche che li rendono divisibili, come concetti sovrapposti ma non perfettamente congruenti.

Si ha spesso la tendenza, nell’uso e linguaggio comune, a utilizzare questi concetti in maniera indistinta e pertanto occasionalmente errata. Ciò che li accomuna è la presenza del riso, elemento che richiama quindi la grande famiglia del comico e al quale è impossibile non associare uno dei suoi più grandi studiosi, il filosofo francese Henri Bergson che, nella prefazione del suo libro “Le Rire”, spiegava il suo approccio allo studio della risata definendo come proprio obiettivo quello di individuare “i procedimenti di produzione del comico” [7] .

Nella sua opera, Bergson ci parla di riso nella sua funzione sociale, basando i suoi scritti sulla convinzione che “non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”[8]. L’uomo non è più visto solo come l’animale che ride ma anche come l’animale che fa ridere, in questo modo il riso trova la sua linfa vitale all’interno della sfera umana, ma per far sì che questo accada egli deve essere in grado di atrofizzare i propri sentimenti per rendere il cuore immune dalla pietà o dalle simpatie nei confronti della persona per la quale si ride.

Per Bergoson: “Il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore”[9]. Tuttavia, il riso torna ad essere un’esperienza sociale, connessa alla capacità e all’esigenza dell’uomo di relazionarsi con gli altri: “Il ‛comico’ nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza”[10].

Di opinione diversa era il filosofo russo Michail Bachtin che non studierà l’aspetto psicologico del riso, né tantomeno sarà interessato a quali siano le cause che lo scaturiscono. Bachtin pose l’accento su un tipo di comicità appannata e sbiadita, quella popolare. Per il filosofo, infatti, il riso non si limita a ridicolizzare ma, come mette in luce in “L’Opera di Rabelais”, vuole tornare a dar importanza al riso popolare dal carattere carnevalesco e festoso e che si contrappone a quello di matrice borghese caratterizzato da un velo di malinconica amarezza.

Ancora oggi i concetti di umorismo, ironia, risata e comicità continuano ad essere ampiamente discussi dagli studiosi, senza che questi siano ancora totalmente in grado di darne una definizione valida e applicabile a tutti i casi.

Umorismo e ironia possono essere, pertanto, definiti come concetti mobili; instabili e molteplici sono i significati e le sfumature attribuitigli, appare chiaro come ogni autore possa, a motivo di suddetta molteplicità, considerarli in accezioni più o meno estese, quanto più o meno racchiuse, così da avere separazioni ben definite fra i due termini, oppure al contrario la loro fusione.

Emanuele Banfi nel suo libro espone questi elementi definendoli concetti mobili, influenzati dalla cultura che li produce:


il tragico è il regno della fissità, esprime valori generali indipendenti dalle circostanze storiche che lo hanno motivato, potenzialmente scissi dai riferimenti socio-culturali in cui esso si è determinato, il comico è, invece, una categoria contingente: ciò che provoca il riso dipende sempre da forze pragmatiche e culturali, che regolano in un particolare hic et nunc, l'atto di comunicazione.

Legato alle regole socio- culturali proprie della comunità che lo esprime, il comico è connesso con la lingua in cui esso si realizza; vive entro precisi confini spazio-temporali. Ciò spiega il fatto che il comico è un prodotto difficile da esportare, ciò che fa ridere a Londra e ad Atene non ha necessariamente lo stesso esito a Parigi o a Milano[11].


Le sfumature dei due elementi portano, così, alla creazione di un continuum dove le caratteristiche di uno sfociano in quelle dell’altro (fig. 1). Pur allontanandosi per certi tratti distintivi, l’umorismo e l’ironia rimangono comunque figlie di una stessa madre: la capacità di suscitare ilarità, seppure con strategie e tecniche differenti.


fig. 1


Umorismo

Ironia

1.1  L’umorismo: da Platone a Pirandello


Il termine umorismo deriva dal latino 'humorert-em', e il suo significato lo si riconduce alle teorie della medicina ippocratica che partiva dalla presenza di quattro umori principali: bile nera, bile gialla, sangue, flegma; fluidi che, prodotti da diversi organi del corpo, influenzavano la salute degli uomini.

Proprio da questa parola latina proviene l’equivalente inglese humour che, anche in terra anglosassone, faceva riferimento ad una scienza medica. Solo nel XVII secolo, ad opera del drammaturgo Ben Jonson, il termine venne legato al contesto del comico prendendo, così, il significato per il quale noi tutti oggi lo conosciamo.


fig. 2


Se prendiamo, ad esempio, la vignetta in questione (fig. 2) notiamo come l’autore giochi con le pubblicità italiane degli assorbenti: il primo fumetto rappresenta la “voce” dello schermo che, in quel momento, li sta reclamizzando; richiamata dalle parole “volare”, “saltare”, “fare tutto quello che voglio”, la signora suppone che il marito, o quello che si presuma essere tale, stia guardando Heroes – famosa serie televisiva americana di fantascienza.

In realtà l’uomo, dalla faccia rassegnata e al quanto annoiata, la corregge spiegando che la tv sta passando una pubblicità per assorbenti femminili.

Pare ovvio come l’autore, rivolto ad un pubblico italiano, presupponga la conoscenza dei contenuti di questo tipo di réclame, spesso basate sulle proprietà sempre più “innovatrici” degli assorbenti e, conseguentemente, il mancato possedimento del suddetto background causerebbe una possibile non-comprensione della vignetta.

Va da sé, pertanto, l’importanza affidata a quel cordone ombelicale che lega l’umorismo, quale stratagemma comunicativo, alla propria cultura di base. Se questo cordone venisse spezzato, e l’elemento di humour sradicato dalle proprie radici, si rischierebbe di perdere l’effetto comico.

Il concetto di umorismo è stato a lungo studiato con l’obbiettivo di trovare una definizione capace di contenerne e contestualizzarne gli usi e gli effetti. Ciò nonostante, ancora oggi molti studiosi ritengono incomplete le varie definizioni e numerosi dibattiti sono tuttora aperti e discussi.

Nel campo della traduzione, non sempre l’umorismo si presta alla trasposizione del codice linguistico – che trascina con sé attributi e caratteristiche culturali – e molti traduttori, a tal ragione, lo epitetano come “tricky element”; un elemento spinoso non solo perché le diverse culture trovano divertenti cose differenti, ma anche, e soprattutto, perché sono le lingue stesse a funzionare in modi diversi.

Tra gli studiosi diverse sono le considerazioni che si fanno dell’umorismo: c’è chi lo considera come una forma più sottile di comicità, basata sull’osservazione di aspetti bizzarri della realtà, e chi distingue profondamente i due concetti.

Bergson non fa questa diversificazione e, nel suo saggio “Il riso. Saggio sul significato del comico” (1900), sottolineava come l'apprezzamento della situazione comica preveda un totale distacco dalla persona derisa: l'empatia, l'identificazione con chi diviene oggetto del riso è bandita.

Aristotele partiva, invece, dalla ferma convinzione che l’umorismo fosse mosso da tutto ciò che è fuori tempo e fuori luogo, teoria che verrà poi ripresa, come elemento fondante per le sue tesi, da Ralph Waldo Emerson: “separate any object, as a particular bodily man, a horse, a turnip, a flour-barrel, an umbrella, from the connection of things, and contemplate it alone, standing there in absolute nature, it becomes at once comic; no useful, no respectable qualities can rescue it from the ludicrous”[12].

Una teoria del tutto nuova verrà, nel 1908, espressa da Pirandello nella sua opera “L’Umorismo”. L'innovazione risiedeva proprio nella distinzione che lo scrittore propose tra “comico” ed “umoristico”. Se il primo veniva inteso come «avvertimento del contrario», pura intuizione di una contraddizione – concezione che per altro coincide con la visione Bergsoniana – il secondo è da considerarsi come «sentimento del contrario», un’elaborata riflessione che si realizza come identificazione e compassione nei confronti della persona derisa.


Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. “Avverto” che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere.

Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un “avvertimento del contrario”. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario.


Teorie circa le modalità attraverso le quali ricreare situazioni di umorismo sono state elaborate, nel corso dei secoli, da una molteplicità di nomi noti e meno noti e oggi possono essere riconducibili a tre grandi filoni principali:

-         le teorie psicoanalitiche o della liberazione

-         le teorie sociali o della superiorità

-         le teorie dell’incongruità.


Le tre prospettive si qualificano per il metodo di indagine impiegato, infatti, il metodo clinico studia l’umorismo partendo da una base di processi psichici; quello sociologico da un processo di stampo sociale mentre i metodi psicologico linguistico-cognitivo hanno come riferimento lo studio della struttura linguistica del fenomeno.

Per il metodo clinico, tra i contributi più significativi troviamo proprio quello del grande Sigmund Freud, medico e teorizzatore della psicanalisi che, nel suo libro “Il Motto di Spirito e le sue relazioni con l'inconscio” (1905), definì l’umorismo come una valente forma di difesa dal dolore. Esso, infatti, rendeva possibile la manifestazione di sentimenti e pensieri evitando spiacevoli effetti sugli altri e rendendo sopportabile ciò che di norma sarebbe troppo terribile da sopportare.

Freud divideva il concetto di comicità da quello di umorismo in senso stretto dal momento che, se il primo implicava una regressione comportamentale a livello infantile, l’atro emergeva in situazioni di difficoltà e disagio. La novità proposta da Freud risiedeva proprio nell’approccio alla realtà umoristica basato sulla descrizione dei meccanismi psichici che la costituiscono – meccanismi che Freud fa risalire alla teoria psicoanalitica.

L’atto verbale dal carattere umoristico permette al soggetto di manifestare il proprio inconscio, solitamente soffocato e represso, in maniera del tutto innocua per l’interlocutore, espellendo, cioè, quegli aspetti traumatici e aggressivi del messaggio; il contenuto di questo, riconducibile per lo più all’istinto sessuale e aggressivo, non è più sottoposto a censura del Super-Iograzie ad un lavoro inconsapevole del soggetto stesso che tenta di mascherare la carica psichica all'interno del suo motto di spirito.

Il piacere, associato al riso, è ricollegabile a questo risparmio di energia psichica: il soggetto riesce, così, a comunicare al suo interlocutore la propria carica psichica evitando di turbare la comunicazione.

In tutti questi casi l’umorismo permette di spostare l’accento da un primario significato palesato a quello mimetizzato nella frase o nel contesto attraverso la condensazione; ne consegue un risparmio di energia cognitiva che, scaricata, provoca il piacere comico.

Freud, in definitiva, riteneva l'umorismo come una delle attività psichiche più elevate e pertanto lo humour era il tramite attraverso il quale ottenere piacere a dispetto delle avversità dell'esistenza: un vero e proprio antidoto contro la sofferenza, processo di attacco e di difesa.

Altra teoria, invece, affonda le sue radice nel 300 a.C. per opera del greco Aristotele. Il filosofo dell’immanenza, così denominato, elaborò la teoria della superiorità secondo la quale il comico veniva riprodotto attraverso l’esaltazione dei caratteri spregevoli o degli errori degli uomini, a patto che ciò non provocasse dolore eccessivo.

Il riso deriverebbe, secondo il filosofo, da un senso di superiorità nei confronti degli altri. La stessa teoria fu ripresa, successivamente, da Platone che metteva in risalto il piacere mescolato alla malevolenza che si proverebbe nel deridere qualcuno, si riallaccia alla visione Platonica anche Baudelaire che, nel suo saggio “Dell’essenza del riso”, spiega:


Dal continuo scontro di questi due inifiniti promana il riso[14].


Il terzo filone di ricerche verte sulla teoria dell’incongruità, formulata dal filosofo Shopenahuer che sarà il primo ad utilizzare esplicitamente questo termine in relazione al riso e all’umorismo:


Shopenhauer affermava che il riso sorge quando improvvisamente scopriamo che gli oggetti reali del mondo che ci circonda non corrispondono ai concetti e alle rappresentazioni che ne abbiamo. Egli aveva evidentemente presenti dei casi un cui questa mancata corrispondenza provocava effettivamente il riso.

Ma egli non dice che tale mancata corrispondenza può anche non essere affatto comica: quando, ad esempio, uno scienziato fa una scoperta che cambia del tutto la sua idea dell’oggetto studiato, quando egli vede che fino a quel momento si era sbagliato, la scoperta di questo errore (<<la mancata corrispondenza del mondo che ci circonda ai concetti che abbiamo>>) cade al di fuori del comico[15].


L’incongruo percepito tra ordine e disordine porta l’uomo, costantemente alla ricerca del primo, a sperimentare la situazione comica.


1.2  L’Ironia: l’arte del non-dire


La parola ironia trae origine dal greco ερωνεία (eironeìa) con il significato di ipocrisia, falsità o finta ignoranza.

Per ironia filosofica, di stampo freudiano, si intende la volontà di esprime un parere, una considerazione, utilizzando una frase il cui significato sia totalmente opposto a ciò che si vuole intendere, per tanto il suo valore è strettamente vincolato dal contesto in cui lo si usa. “L’ironia, come figura logica, consiste nell’affermare una cosa intendendo dire l’opposto”[16].

In tal senso acquisisce importanza anche l’intonazione della voce: Umberto Eco, nel definirla, sosteneva che fosse una “figura di pensiero (che) […] si deve sempre usare facendola procedere dalla pronunciatio, che ne costituisce il segnale e la giustificazione”[17]. Ironia, dunque, come un artifizio attraverso il quale negare ciò che si afferma per mezzo della tecnica dell’inversione semantica, inversione che va spesso cercata “non tanto nel capovolgimento di senso di una parola, ma piuttosto nel significato globale dell’enunciato”[18].


Ciò che si evince dalla vignetta è un chiaro esempio di ironia filosofica.

Il mare è in tempesta e la pioggia è scrosciante, i tre sub, dalla faccia rassegnata, cercano di coprirsi con degli ombrelli mentre, sconsolati , pensano: “Tempo magnifico per un giro in gommone!!”. Risulta chiara l’ironia della loro riflessione dato il maltempo che li ha colpiti.

Come per l’umorismo, anche l’ironia richiede una serie di fattori che ne inneschino il meccanismo, fattori che anche qui chiameremo “background”, indispensabili per ottenere l’effetto farsesco sperato.

Il background può essere rappresentato da un elemento visivo – come nel caso della fig. 3 – da un’intonazione di voce – es. esclamare “Come sono felice!” con aria triste e sconsolata – addirittura da una pre-conoscenza di elementi condivisa da almeno due parlanti – il parlante ‛X’ esclama: “Proprio una bella festa ieri!” riferendosi ad ‛Y’ che è a sua volta a conoscenza del fatto che la festa sia stata un vero e proprio flop -.

L’uso ironico può legarsi all’utilizzo mirato di determinate espressioni o parole che, in quanto connesse alla specificità della lingua, trovano difficoltà ad essere esportate e sradicate dalla loro cultura originaria.


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