I DIRITTI UMANI DELLE
DONNE E L'ABORTO:
IL CASO DEL SUDAFRICA.
1. Introduzione
Nell'agosto del 2007, il Consiglio internazionale di Amnesty
International ha deciso di includere nel suo lavoro su diritti sessuali e
riproduttivi anche la richiesta di depenalizzare dell'aborto e di garantire
alle donne (in certi casi gravi come ad esempio in seguito
ad una violenza sessuale) l'accesso all'aborto in condizioni di sicurezza.
Subito dopo, l'organizzazione è stata fortemente attaccata da alcuni
esponenti religiosi e da organi di stampa[1], ma ormai la
consultazione interna, che era durata più di due anni e aveva causato non poche
tensioni all'interno della stessa ONG, si era conclusa. Con ciò, un'altra delle
grandi organizzazioni per i diritti umani[2], composta da uomini e
donne[3], afferma che, a volte, i diritti umani delle donne possono essere a
rischio se lo Stato non garantisce l'accesso ad un aborto sicuro.
Nel diritto internazionale dei Diritti Umani, i riferimenti all'aborto
sono rari, e quasi sempre si rimanda alle norme nazionali.
L'unica eccezione è finora rappresentata dal Protocollo opzionale alla Carta
africana dei diritti umani e dei popoli, firmato nel luglio 2003.
Nelle legislazioni nazionali, le norme sull'aborto variano tra un
divieto assoluto e un'ampia liberalizzazione. Una delle
leggi più liberali sull'aborto è quella del Sudafrica, approvata nel 1996 dal
primo parlamento democraticamente eletto dopo la fine dell'apartheid, con lo
scopo esplicito di tutelare i diritti umani delle donne.
Il presente lavoro si propone di analizzare la tematica dei diritti
umani delle donne, in particolare dei diritti sessuali e riproduttivi, e il
collegamento tra tali diritti e l'aborto.
Prendendo come caso di studio la legge del Sudafrica, intendo
analizzare le correlazioni tra l'applicazione di tale legge e la realizzazione
dei diritti umani delle donne.
2. I diritti umani delle donne e l'aborto
2.1. I diritti delle donne nella storia
recente dei diritti umani
L'universalità dei diritti umani e il divieto della discriminazione
fondata sul sesso è sancita nella Dichirazione Universale dei Diritti Umani,
approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948, e (in maniera giuridicamente vincolante) dai due patti internazionali
del 1966.[4]
I due patti, come anche la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
politici delle donne del 1953, la Convenzione delle Nazioni Unite sulla
nazionalità delle donne sposate del 1957 e la Convenzione UNESCO sulla
discriminazione nell'istruzione mirano a dare alle donne la stessa posizione di
cui godono gli uomini, nella sfera pubblica. Questo
approccio, condiviso anche dalla Commissione ONU sulla condizione delle donne,[5] prometteva uguaglianza a quelle donne che si adeguano ad un modello
maschile, senza offrire molto a quelle che non lo fanno, come osserva Hilary
Charlesworth.[6] Infatti, le garanzie che tali patti offrono all'individuo riguardano
prevalentemente la sfera pubblica, tradizionalmente frequentata da uomini. Mettere
l'accento sull'uguaglianza rischia di negare la diversità tra i sessi. Il
godimento dei diritti che i patti tutelano diventa quindi raggiungibile per
quelle donne che conquistano l'autonomia tradizionalmente riservata agli
uomini, attraverso l'istruzione, il lavoro e la partecipazione politica. Questo
approccio non approfondisce le diversità di genere ma dà per scontata
l'autonomia del soggetto tipico del liberalismo, cittadino e lavoratore,
negando l'importanza della sfera riproduttiva e corporea, dei legami
interpersonali e delle tradizioni culturali che determinano fortemente la vita
delle donne e che devono essere al centro dell'attenzione nell'elaborazione di
un concetto di diritti umani che sia pienamente rispettoso delle diversità tra
le persone. Ad esempio, il divieto di lavori forzati o il diritto alla libertà
e alla sicurezza della propria persona sono declinati con riferimento a
violazioni commesse dallo stato, ma non riguardano i casi in cui questi diritti
sono violati nei confronti di numerosissime donne, non da attori statali ma da
attori privati o da norme culturali, all'interno dello spazio domestico.
In linea con la tradizione dei diritti civili e politici fondata da
John Locke nel 1700, ancora "i diritti vengono definiti sulla base di
quello che gli uomini temono possa accadere loro".[7] Questo
approccio che dà per scontato il punto di vista maschile e lascia invisibili le
condizioni di vita della maggior parte delle donne si riscontra anche nei
trattati internazionali che tutelano i diritti di "seconda" e di
"terza generazione", cioè i diritti economici, sociali, culturali e i
diritti collettivi. La formulazione di tali diritti nei trattati (per esempio
il diritto al lavoro) non tiene conto del fatto che spesso non sono motivi
legali, economici e sociali ad impedire alle donne di lavorare, ma ostacoli di
natura famigliare e culturale.
Le violazioni dell'integrità fisica femminile, diffuse in tutte le
regioni del mondo e perpetrate proprio in quello spazio privato
"protetto" dalle mura domestiche, non erano contemplate da quelle
norme che pure pretendevano di avere valore universale.
Secondo Charlesworth, anche la CEDAW[8] del
1979 è basata sullo stesso approccio limitato. Bisogna comunque riconoscere che
questa convenzione declina in maniera concreta molti ambiti in cui le donne
sono discriminate, senza escludere l'ambito domestico e famigliare. La CEDAW
era stata redatta con la collaborazione di sei organizzazioni, tra cui la All
African Women's Conference.[9] Si tratta di uno dei trattati con il maggior numero di ratifiche e,
pur essendo ancora oggi soggetta ad un alto numero di riserve o obiezioni da
parte degli stati firmatari[10], rappresenta uno strumento importante per avanzare la tutela dei
diritti femminili nel mondo. Il suo impatto si è rafforzato recentemente con
l'entrata in vigore del protocollo facoltativo che istituisce una procedura di
denuncia individuale, e una procedura di indagine a carico del Comitato CEDAW.[11]
Con la CEDAW, per la prima volta nella storia, i diritti delle donne si
posizionano "al centro del discorso legale internazionale".[12] B.E. Hernandez-Truyol[13] indica l'inizio della "rivoluzione dei diritti umani delle donne"
con l'Anno internazionale della donna (1975) e con la I Conferenza mondiale
sulle donne svoltasi a Città del Messico nel 1975, seguiti dalla Women's
decade (1976-1985) e altre due conferenze sulle donne, nel 1980
(Copenhagen) e nel 1985 (Nairobi).
È con la Conferenza di Vienna del 1993 che la violenza contro le donne
viene espressamente riconosciuta come violazione dei loro diritti umani[14], chiamando in causa l'obbligo dello stato di tutelare tali diritti.
Prima della conferenza, una coalizione internazionale di organizzazioni
femminili si era attivata nel lavoro di lobby per ottenere il riconoscimento
dei diritti delle donne come diritti umani.[15]
2.2 Le conferenze del Cairo e di Pechino e i
diritti riproduttivi
Altre conferenze internazionali che hanno fatto avanzare il
riconoscimento internazionale dei diritti delle donne sono state in particolare
la Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo del 1994 e la IV Conferenza
Mondiale sulle donne, svoltasi a Pechino nel 1995.
La conferenza del Cairo ha allargato i diritti delle donne alla sfera
sessuale e riproduttiva che accanto al tema della violenza contro le donne
rappresenta il secondo ambito essenziale dei diritti umani delle donne. Sono infatti questi due gli ambiti che riguardano da vicino l'integrità
fisica della donna ed è qui che si manifestano le differenze più essenziali
rispetto agli uomini, quelle differenze che possono compromettere la
realizzazione di tutti gli altri diritti umani delle donne.
Il tema dei diritti riproduttivi merita qui un particolare
approfondimento. Secondo il programma di azione concordato
alla conferenza del Cairo, tali diritti
"7.3
(...) si basano sul riconoscimento del diritto basilare di tutte le coppie e
dei singoli individui di decidere liberamente e responsabilmente sul numero, il
momento e l'intervallo fra le nascite dei propri figli, di avere i mezzi e le
informazioni necessarie per esercitare tale diritto, e di ottenere i migliori
standard di salute sessuale e riproduttiva. Ciò comporta anche il diritto di ognuno
a prendere decisioni relative alla riproduzione senza essere oggetto di
discriminazioni, coercizioni o violenze, come espresso nei documenti sui
diritti umani. (...) I fattori che ostacolano il raggiungimento della salute
riproduttiva per molte persone nel mondo sono: conoscenze inadeguate sulla
sessualità e informazioni e servizi di salute riproduttiva inadeguati o di
cattiva qualità, la prevalenza di comportamenti sessuali ad alto rischio;
pratiche sociali discriminatorie; atteggiamenti negativi nei confronti di donne
e bambine; il potere limitato di molte donne e bambine di decidere sulla loro
vita sessuale e riproduttiva. (...)"
Il programma di azione dà la seguente definizione di salute
riproduttiva (che include la salute sessuale):
"7.2.
La salute riproduttiva è uno stato di benessere fisico, mentale e sociale
completo, e non soltanto l'assenza di malattia o infermità, in tutti gli ambiti
relativi al sistema riproduttivo, le sue funzioni e i suoi processi. La salute
riproduttiva implica quindi che le persone siano in grado di avere una vita
sessuale soddisfacente e sicura e che abbiano la capacità di riprodursi e la
libertà di decidere se, quando e quante volte farlo. Quest'ultima condizione
include il diritto di uomini e donne di essere informati e di avere accesso a
metodi di pianificazione famigliare di loro scelta che siano sicuri, efficaci,
accessibili e accettabili come anche ad altri metodi di loro scelta per la regolazione
della fertilità che non sono contro la legge e il diritto di accesso a
servizi sanitari adeguati che permettano alle donne di attraversare la
gravidanza e il parto in condizioni di sicurezza (....) include anche la salute
sessuale che ha lo scopo di migliorare la qualità della vita e delle relazioni
personali e non solo la consulenza e la cura relativa a malattie della riproduzione
e malattie a trasmissione sessuale."[16]
Come spiega Maja Kirilova Eriksson, il termine "regolazione della
fertilità" è inteso da molti partecipanti alla conferenza del Cairo
comprensivo dell'aborto (come anche dalla Organizzazione mondiale per la sanità), contrariamente alla "pianificazione famigliare", già
riconosciuta come diritto umano.[18] Le delegazioni più
conservatrici, in particolare la Santa Sede, riescono infatti ad impedire che
nella conferenza siano creati "nuovi diritti umani internazionali", e
i riferimenti all'aborto nel programma di azione sono limitati dalle
affermazioni che "in nessun caso, l'aborto dovrebbe essere promosso come
metodo di pianificazione famigliare" e "ogni misura o cambiamento in
relazione all'aborto nel sistema sanitario può essere solo determinato al
livello nazionale o locale, secondo il processo legislativo nazionale".[19] Vengono però stabiliti due impegni per i governi che mettono al centro
dell'attenzione la salute delle donne:
"tutti
i governi (...) sono chiamati (...) ad occuparsi delle conseguenze sanitarie
degli aborti insicuri che costituiscono una grave preoccupazione per la salute
pubblica"
e
"quando
l'aborto non è illegale, deve essere sicuro. In ogni caso, le donne dovrebbero
avere accesso a servizi di qualità per la gestione delle complicazioni
derivanti dall'aborto."[20]
L'intensa e qualificata preparazione della conferenza del Cairo, svolta
da una rete di movimenti femminili internazionali, era riuscita ad inserire la
salute delle donne al centro delle politiche demografiche e di sviluppo e ad usare
come punto di riferimento la CEDAW e altri trattati sui diritti umani. Un risultato importante è anche rappresentato dal fatto che per la
prima volta si faccia riferimento ai diritti riproduttivi delle adolescenti e
del ruolo degli uomini per la salute riproduttiva delle donne.
Gli obiettivi decisi nella conferenza del Cairo sono tuttora un
importante punto di riferimento, come emerge dalla strategia dell'Organizzazione
mondiale della sanità "per accelerare il progresso verso il raggiungimento
degli obiettivi internazionali di sviluppo e degli obiettivi riguardo alla
salute riproduttiva" del maggio 2004. Questa strategia, facendo
riferimento agli obiettivi del Cairo, pone le seguenti 5 priorità per la salute
sessuale e riproduttiva:
migliorare
le cure prima, durante e dopo il parto e le cure per i neonati; offrire servizi
di pianificazione famigliare di alta qualità inclusi il trattamento
dell'infertilità; eliminare gli aborti insicuri; combattere le infezioni
a trasmissione sessuale incluso l'HIV, le infezioni del tratto riproduttivo, il
cancro della cervice e altre patologie ginecologiche; promuovere la salute
sessuale.[21]
La conferenza di Pechino, apertasi con un forum
delle ONG al quale hanno partecipato oltre 25.000 donne di tutto il mondo,
riafferma non solo i diritti riproduttivi, ma anche il concetto di
"empowerment" e "gender-mainstreaming" e declina i diritti
umani delle donne in una piattaforma d'azione che si propone di affrontare
dodici "aree di crisi" che vanno dalla violenza ai diritti politici,
dalla povertà al diritto alla salute.[22]
Con il
paragrafo 96, i governi accettano una definizione dei diritti sessuali e
riproduttivi delle donne che va oltre agli impegni del Cairo:
I diritti umani delle donne
includono il loro diritto di controllare e decidere liberamente e
responsabilmente le questioni riguardanti la loro sessualità, inclusa la loro
salute sessuale e riproduttiva, libere da coercizione, discriminazione e
violenza. Le relazioni
paritarie tra donne e uomini in materia di relazioni sessuali e riproduzione,
incluso il pieno rispetto dell'integrità della persona, richiedono rispetto e
consenso reciproco e una responsabilità condivisa del comportamento sessuale e
le sue conseguenze.[23]
Secondo Ellen Chesler[24] questo testo supera le formulazioni mai raggiunte in un forum
dell'ONU. È abbastanza ampia da concedere, ad esempio, protezione alle donne
sposate rispetto ad un marito sieropositivo, e da prevenire la discriminazione
basata sull'orientamento sessuale. Non è un caso, quindi, che 29 stati, molti
dei quali islamici, abbiano posto delle riserve riguardo a questo testo, mentre
la Santa Sede e diversi stati sudamericani hanno espresso la preoccupazione che
il paragrafo citato potesse essere interpretato in maniera favorevole
all'aborto.[25]
La
dichiarazione di Pechino, che funge da cornice alla piattaforma di azione,
ribadisce inoltre in maniera univoca l'impegno della Dichiarazione Universale
del 1948 secondo il quale "i diritti umani sono universali e appartengono
agli individui" e la loro promozione e protezione è la
"responsabilità sovrana di ogni stato", aggiungendo che il rispetto
per la religione, la cultura e la filosofia dovrebbe "contribuire al pieno
godimento dei diritti umani da parte delle donne".[26]
2.3 Gli sviluppi dopo Pechino
Dopo la conferenza di Pechino pare che l'avanzamento dei diritti delle
donne nel diritto internazionale abbia subito una battuta di arresto. Nel marzo 2005, dopo la 49a sessione della Commissione sulla
condizione delle donne, soprannominata "Beijing + 10", Amnesty
International esprime la sua delusione rispetto al fatto che i governi presenti
sono stati "incapaci o non disposti a costruire sugli sforzi fatti (...) e
a progredire nella promozione e nella tutela dei diritti umani delle donne. La
Dichiarazione adottata (...) riguarda un ambito estremamente modesto e aggiunge
poco alla riaffermazione degli impegni presi dieci anni fa."[27]
Nelle "riflessioni post-Beijing" sulle limitazioni e sul
potenziale del concetto di diritti umani per le donne, nel 1999, Dianne Otto
aveva osservato che a Pechino non era stato raggiunto l'obiettivo di fare
riconoscere come diritti umani alcuni diritti specificamente femminili. Dalla sua analisi della Piattaforma di Pechino emerge infatti che gli
stati, invece di riconoscere diritti umani nuovi avevano con cura
distinto tra "diritti umani" (universali) e "diritti delle
donne" (non universali). Questa distinzione emerge particolarmente chiara
nelle sezioni sulla salute e sulla violenza contro le donne. Otto critica
inoltre l'attenzione insufficiente ai diritti economici e sociali.[28] La conferenza di Pechino resta comunque un importante - se non
l'ultimo - punto di riferimento per chi difende i diritti umani delle donne. Le
forti opposizioni all'inserimento dei diritti sessuali e riproduttivi che si
erano espresse già durante la conferenza sono infatti continuate dopo,
rallentando e addirittura bloccando i tentativi di rafforzare ulteriormente la
tutela dei diritti umani delle donne nel diritto internazionale. Infatti,
Amnesty International nel 2000 lamentava che nella preparazione della
conferenza "Beijing + 5",
alcuni governi hanno messo in
discussione addirittura il fondamento di quello che era stato affermato a
Pechino: che i
diritti delle donne sono diritti umani (...) La non santa alleanza tra la Santa
Sede, Iran, Algeria, Nicaragua, Siria, Libia, Marocco e Pakistan ha tentato di
tenere in ostaggio i diritti umani delle donne. Durante la sessione di
preparazione (...) addirittura il concetto di diritti umani è stato
classificato come questione "difficile".[29]
Anche nella
"Dichiarazione del Millennio" del settembre 2000, fa notare Anna
Rossi-Doria, si ha "una prova delle resistenze e delle ostilità incontrate
dal movimento delle donne" perché "tra gli obiettivi generali che
riassumevano i risultati delle Conferenze degli anni novanta, mancava quello
centrale dell'accesso alla salute sessuale e riproduttiva".[30]
Di fronte a
questa incapacità della comunità degli stati di riconfermare e sviluppare
ulteriormente i diritti riproduttivi delle donne, si possono osservare comunque
alcuni sviluppi positivi. Alcuni stati hanno approvato
costituzioni e leggi che mettono un forte accento sui diritti umani delle
donne, anche quelli sessuali e riproduttivi. La nuova democrazia sudafricana ne
è probabilmente l'esempio più evidente. In molti paesi, governi, movimenti
femminili e ONG umanitarie cercano di tradurre in realtà gli obiettivi globali
formulati nelle conferenze degli anni novanta, anche se la "regola del
bavaglio globale", [31] introdotta
negli anni '80 dal governo Reagan e imposta nuovamente dal governo Bush, ha
gravemente danneggiato i programmi sulla pianificazione famigliare e
sull'empowerment delle donne in molti paesi. I fondi sono scarsissimi, e
nonostante alcuni miglioramenti, l'Organizzazione Mondiale della Sanità riporta
statistiche allarmanti:
Ogni anno vengono interrotte
45 milioni di gravidanze indesiderate, di cui 19 milioni in maniera non sicura;
il 40% di tutti gli aborti non sicuri vengono effettuati su donne giovani tra
15 e 24 anni. Si stima che
ogni anno muoiano 68.000 donne a causa di aborti insicuri, questa cifra
rappresenta il 13% della mortalità legata alla gravidanza. (...) studi indicano
che su cinque donne che si sottopongono ad aborti insicuri almeno una riporti
un'infezione del tratto riproduttivo; alcune di queste infezioni sono serie e
causano infertilità. [32]
Il fatto che la salute sessuale e riproduttiva non sia stata inserita
tra i Millennium Development Goals del 2000 viene ormai riconosciuto
come errore anche dall'ONU. Il rapporto Millennium
Project del 2005 constata che la salute sessuale e riproduttiva è
essenziale non soltanto per raggiungere i tre obiettivi del millennio
riguardanti la salute, ma anche per raggiungere molti altri obiettivi come la
riduzione della povertà estrema, la garanzia delle opportunità di istruzione e
della parità di genere e il raggiungimento della sostenibilità ambientale.[33] E
anche l'Unione Europea dichiarava nel maggio 2005 che gli obiettivi del
millennio non possono essere raggiunti senza che ci siano progressi nella
realizzazione dell'obiettivo fissato al Cairo di garantire l'accesso universale
alla salute sessuale e riproduttiva.
Tra il 1995 e il 2005, l'accesso all'aborto legale è stato facilitato
in 12 paesi, tra cui diversi paesi africani come Benin, Burkina Faso, Ciad,
Etiopia, Guinea, Mali e Sudafrica. Mentre nei paesi
sviluppati l'aborto - quando è legale - è ormai un intervento molto sicuro, il
97% degli aborti clandestini (e quindi pericolosi) vengono effettuati nei paesi
in via di sviluppo. Il 44% delle 68.000 donne che muoiono di aborto clandestino
sono africane. Paradossalmente, in molti paesi del terzo mondo, le leggi che vietano
l'aborto sono retaggio del dominio coloniale europeo. Non
sorprende quindi che uno sviluppo interessante del diritto internazionale sia
avvenuto proprio in Africa, con l'adozione del Protocollo africano sui diritti
delle donne da parte dell'Unione Africana.
2.4 Il protocollo africano sui diritti delle
donne (Protocollo di Maputo)
Nel novembre 1994 e nel marzo 1995 si sono svolte due conferenze
importanti grazie all'azione concertata di organizzazioni come la Commissione
internazionale dei giuristi (CIJ), la FEDDAF/WILDAF (Femme, droit e
développement en Afrique) e il Centre africain de la démocratie e des
études des droits de l'homme di Banjul, in cooperazione con la Commissione
africana. Si trattava del forum delle ONG in preparazione
della conferenza di Pechino, tenutosi a Dakar (1994), e del seminario sulla
"Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli e i diritti
delle donne" a Lomé (1995). Dal seminario di Lomé è emersa la
raccomandazione che l'OUA adottasse un protocollo sui diritti delle donne,
aggiuntivo o opzionale alla Carta africana e che venisse nominato un relatore
speciale sui diritti delle donne. I capi di stato e di governo dell'OUA
decisero di implementare questa raccomandazione nel giugno 1995 ed istituirono
un gruppo di lavoro che propose come relatrice speciale Julienne
Ondziel-Gnelenga, giurista congolese ed ex-vicepresidente della Commissione
Africana, ed elaborò un progetto di protocollo.[38] Nel
gennaio 2003, l'ONG internazionale Equality Now organizzò una riunione di
attiviste africane per i diritti delle donne, per esaminare il progetto ed
organizzare il lavoro di lobby sui governi per fare "adottare un testo che
promuova realmente i diritti delle donne africane nel diritti
internazionale".[39] Il
protocollo venne adottato nel luglio 2003 a Maputo e entrò in vigore il 25
novembre 2005. Il testo del cosiddetto "protocollo di Maputo"
riprende molti degli impegni della piattaforma di Pechino, tra cui il divieto
delle mutilazioni genitali femminili che in questo modo viene inserito per la
prima volta in un trattato internazionale. I diritti sessuali e riproduttivi
sono trattati nell'articolo 14 ("Diritti in materia di salute e salute
riproduttiva") che mette al primo posto il "diritto al controllo
sulla propria fertilità", compreso nel diritto delle donne alla salute. L'ultimo
comma, il 2.c), rappresenta uno sviluppo notevole rispetto alle conferenze
degli anni '90 perché inserisce l'impegno degli stati di proteggere i diritti
riproduttivi delle donne autorizzando l'aborto terapeutico nei casi di violenza
sessuale, stupro, incesto e quando portare avanti la gravidanza
comprometterebbe la salute mentale e fisica della donna o la vita della donna o
del feto.[40]
È la prima volta che un trattato internazionale (in
questo caso, regionale) citi esplicitamente l'aborto come mezzo per proteggere
i diritti riproduttivi delle donne. Prima dell'approvazione del protocollo di
Maputo, erano state emesse varie raccomandazioni generali o osservazioni
conclusive di comitati ONU[41]
rivolte a stati dove l'aborto è totalmente vietato, limitato da parametri
troppo restrittivi o dove l'obiezione di coscienza dei medici impedisce in
pratica l'accesso ai servizi di aborto anche quando questi sono legali. Queste pronunce dei comitati sono vincolanti come interpretazioni
ufficiali dei trattati relativi. Dalla convenzione CEDAW, dalle conferenze
degli anni '90 e dalle interpretazioni dei comitati era infatti emerso un
consenso internazionale sul fatto che l'aborto, dove è legale, debba essere
sicuro e accessibile, e che in ogni caso, le donne abbiano diritto al
trattamento di complicazioni derivanti da aborti illegali. Inoltre, sono state
criticate le legislazioni troppo restrittive sull'aborto, come emerge per
esempio dai commenti del Comitato CEDAW sul rapporto cileno del 1999.[42]
L'inserimento dell'aborto in un trattato regionale ha rappresentato
comunque una novità e ha scatenato forti proteste da parte della Chiesa
cattolica. In un documento del 19 giugno 2007, 34 vescovi
ed arcivescovi dell'associazione delle conferenze episcopali dell'Africa
centrale, preoccupati dalla "cultura di morte" che si sta diffondendo
in Africa, condannano il protocollo di Maputo (in particolare l'art. 4 sulla
violenza contro le donne e l'art. 14 sopra citato) come "una minaccia
grave per i valori della morale cristiana e della cultura africana"[43]. Ripropongono quindi una visione statica della "cultura
africana" e del ruolo della donna nell'ambito di tale cultura contro la
quale, invece, i movimenti femminili africani si battono da tempo. Come spiega
Anna Rossi-Doria
Negli anni novanta, sono stati
spesso gruppi di donne del Terzo mondo a denunciare il fatto che il relativismo
culturale veniva difeso non dalle vittime delle violenze, ma dai dirigenti di
paesi in cui sono calpestati i diritti umani. Un ruolo decisivo in questo senso (...) fu svolto a
Pechino da donne dello Zimbabwe, dello Zambia e del Sudafrica.[44]
Durante il seminario di Lomé, il prof. Kivutha Kibwana dell'Università
di Nairobi, riconosce la necessità di scegliere tra vari aspetti culturali per
tutelare i diritti delle donne africane:
La Carta assegna grande
importanza ai costumi e ai valori tradizionali (art. 18, 22, 27, 29 para. 7 e 61). Solo l'articolo 29 (7) riconosce che non
tutti i valori culturali africani sono positivi. I costumi, i valori tradizionali
e il diritto consuetudinario sono i primi fattori che hanno contribuito a
negare alle donne africane i loro diritti. Le disposizioni relative ai costumi
e alla cultura devono essere attenuate per garantire che vengano imposti solo i
valori positivi. Le nuove costituzioni in Africa cominciano a dedicarsi
apertamente alla questione della cultura riconoscendo il fatto che questa
comporta sia aspetti positivi che negativi.[45]
Il protocollo di Maputo riconosce alle donne il diritto "di vivere
in un contesto culturale positivo e di partecipare a tutti i livelli alla
determinazione delle politiche culturali" riconoscendo così il carattere
dinamico della cultura.
Anche se il riferimento esplicito all'aborto rappresenta un precedente
importante al livello internazionale, le restrizioni implicite nell'articolo 14
sono comunque notevoli e denotano lo sforzo di raggiungere un compromesso
minimo in sede di negoziato. Limitando l'impegno dello stato all'autorizzazione
dell'aborto, innanzitutto si evita di vincolare gli stati a rendere accessibili
e raggiungibili servizi sanitari per abortire. Inoltre, si evita di riconoscere
una serie di fattori importanti che possono mettere in gravi difficoltà una
donna e rendere necessari un aborto: una situazione economica difficile, la
difficoltà di imporre l'uso dei contraccettivi nel rapporto con il partner, il
non funzionamento del metodo contraccettivo scelto o l'abbandono da parte del
partner che rifiuta la paternità. Va considerato inoltre la difficoltà di
dimostrare uno stupro, in particolare dove lo stupro tra coniugi non è
riconosciuto come un crimine dalle leggi del paese. Il "diritto al
controllo sulla propria fertilità" e il "diritto di decidere se avere
o non avere figli, il numero dei figli e la distanza tra una gravidanza e
l'altra", sanciti nel primo comma dell'art. 14, rimangono fortemente
limitati. Il protocollo di Maputo rappresenta quindi un passo avanti
nell'affermazione dei diritti individuali delle donne, ma il riconoscimento dei
diritti sessuali e riproduttivi, fondamentale per l'autodeterminazione delle
donne e per la loro integrità fisica, non è ancora completo.
Maggiori progressi sono stati invece compiuti da alcune legislazioni
nazionali, in particolare da quella sudafricana che sarà analizzata nei prossimi
capitoli.
3. La legge sull’aborto in Sudafrica
3.1. La situazione prima del 1996[46]
Durante
il regime dell'apartheid, il governo dominato dal National Party promuoveva
politiche demografiche razziste, differenziate per sudafricani bianchi, neri e
"coloured": alle donne bianche venivano
concessi incentivi fiscali per incoraggiarle a fare figli mentre per le donne
nere e "coloured" si promuoveva la contraccezione. Prima del 1975,
l'aborto non era legalizzato ma poteva essere giustificato nell'ambito del
diritto consuetudinario se la gravidanza poneva un rischio per il benessere
mentale della donna. Abortire era costoso e comportava rischi legali per i
medici; e per le donne nere, in particolare, poteva essere molto difficile
trovare un medico disposto ad eseguire un'interruzione di gravidanza. Su
pressioni dei medici e dei movimenti femminili venne adottata la legge di
riforma del 1975 che legalizzava l'aborto, ma che infine ne restringeva
l'ammissibilità alle situazioni di grave rischio per la vita o la salute della
donna, di rischio di grave handicap per il bambino, di gravidanza in seguito a
violenza sessuale o incesto. La legge inoltre chiedeva che ogni aborto fosse
approvato da 3 medici.[47] Tra
il 1975 e il 1996, ogni anno venivano effettuati circa 1000 aborti legali. Questa cifra costituiva solo una minima parte degli aborti complessivi
in Sudafrica: le stime del numero degli aborti clandestini vanno da 120.000 a
250.000 all'anno. Per l'esecuzione di aborti illegali erano previsti (per il
medico e la donna) pene pecuniarie di 5000 Rand e 5 anni di reclusione. Tra
luglio 1988 e giugno 1991, oltre 80 persone sono state condannate sulla base di
quella legge. Alcuni ricercatori del Medical Research Council of South Africa
hanno cominciato nel 1993 ad analizzare la relazione tra aborto e mortalità
materna. Nel 1994, secondo i loro studi, sono state ricoverate più di 12.000
donne con complicazioni molto o moderatamente gravi in seguito ad aborti
clandestini. Più di 400, in quell'anno, sono morte a causa di infezioni. Si
tratta comunque di numeri sottostimati, perché i casi di molte donne,
specialmente quelle più povere e con difficoltà di accesso ai servizi sanitari,
difficilmente saranno stati presi in considerazione.[48]
C'erano notevoli variazioni regionali: nella Provincia del
Western Cape, il 14,3% dei ricoveri in seguito ad aborti incompleti avveniva
per complicazioni gravi, il 3,8% per complicazioni moderate; nella Provincia di
Gauteng (con un bacino di utenza esteso sulle province rurali circostanti, dove
mancavano servizi adeguati), il 20,6% dei ricoveri avveniva per complicazioni
gravi e il 22,7% per complicazioni moderatamente gravi. Queste differenze si
spiegano con la diversa disponibilità e preparazione di persone che praticavano
aborti clandestini nelle varie zone e con la diversa capacità delle donne di
pagare per tali servizi. Quasi il 50% dei ricoveri in ginecologia ed ostetricia
degli ospedali pubblici sudafricani era costituito da casi di aborto incompleto[49] che
richiedevano un ricovero più lungo e interventi più complessi e costosi
rispetto all'esecuzione di aborti nel primo trimestre senza complicazioni. I costi per trattare le donne in seguito ad aborti clandestini sono
stati stimati a circa 4.4 milioni di dollari USA (nel 1994), senza considerare
il fatto che soltanto il 10-15% delle donne si presentano dal medico dopo un
aborto e senza ovviamente considerare il grave peso degli effetti psicologici
per le donne e le loro famiglie.
3.2 L'adozione della "Choice on
Termination of Pregnancy Act"
Nella
lotta per la democrazia in Sudafrica, le donne avevano avuto un ruolo
importante. Comunque, benché i diritti umani fossero un
tema importante nella lotta contro l'apartheid
i diritti delle donne e in
particolare i diritti riproduttivi delle donne non erano stati inseriti nel
"mainstream" del movimento anti-apartheid prima degli anni novanta.[51]
R.
Pellizzoli, nel suo articolo "La partecipazione politica delle donne
sudafricane",[52]
evidenzia come le due correnti prevalenti del femminismo sudafricano, "una
nera e nazionalista, l'altra, tendenzialmente, bianca e femminista" erano
legate dal "linguaggio politico del motherism" che metteva al
centro della retorica di genere la figura della "madre". Questa retorica che identifica le donne con il ruolo di madre può
influenzare negativamente la libertà femminile nell'ambito dei diritti sessuali
e riproduttivi. Infatti, a volte succedeva che gli uomini giovani prendevano
posizione contro la contraccezione dicendo che le donne dovevano partorire
"soldati" per la lotta.[53] Comunque, tra i leader dell'ANC in esilio la posizione ufficiale
cominciò a cambiare, e negli anni '90 venne riconosciuto lo specifico carattere
di discriminazione delle donne insito nel sistema dell'apartheid e nei sistemi
tradizionali patriarcali sudafricani:
Nel gennaio del 1990 la
Malibongwe Conference di Amsterdam, organizzata dalla sezione femminile
dell'ANC col supporto del Women's Committee del movimento anti-apartheid
olandese, fu un importante passo in avanti perché legittimò la lotta contro l'oppressione
di genere come un aspetto politico autonomo all'interno della lotta di
liberazione.(...) la dichiarazione di Amsterdam fatta propria dall'ANC il 2
maggio 1990 (...) lasciò aperto per le donne uno spazio in cui organizzarsi
come movimento autonomo.[54]
Nel
periodo della transizione, nell'aprile 1992, le donne sudafricane riuscirono a
costituire una coalizione molto ampia:
La costituzione della
"Women's National Coalition (WNC) ... che raggiunse l'affiliazione di 92
organizzazioni nazionali e di 13 coalizioni regionali coprendo la maggior parte
dei partiti politici, delle organizzazioni femminili rurali, delle
organizzazioni religiose e professionali, suscitò sia sorpresa che ammirazione.[55]
Come
spiegava nel 1996 Brigitte Mabandla, viceministro, le donne
nelle organizzazioni femminili rurali - contrariamente a quanto succedeva
ancora negli anni '80 quando la lotta antiapartheid aveva la precedenza
rispetto alle questioni di genere - esprimevano in maniera molto esplicita la
loro idea di liberazione femminile che comprendeva l'emancipazione dal
controllo patriarcale e dai sistemi tradizionali, il libero accesso alle
risorse, e la libertà di scelta rispetto all'aborto.
La
coalizione rappresentò sia una campagna politica per mobilitare e istruire le
donne, sia un tentativo di influenzare il processo costituente del nuovo
Sudafrica.
Seguì un processo partecipativo che
portò alla redazione della Women's Charter for Effective Equality[57] e
influenzò la dichiarazione dei diritti fondamentali contenuta nella costituzione
del 1996 che vieta la discriminazione per genere, sesso, gravidanza e stato
civile, garantisce i servizi sanitari compresi quelli per la salute
riproduttiva e, soprattutto, mette al primo posto tra i diritti sull'integrità
fisica quello di "prendere decisioni riguardanti la riproduzione".[58]
Barbara
Klugman, antropologa e ex-direttrice del Women's Health Project,
riferisce che con l'inizio dei negoziati tra ANC e National Party, nel
1990, si costituirono inoltre una serie di forum nazionali su varie tematiche
sociali, con la presenza dei maggiori gruppi di interesse - sindacati, aziende,
ONG - per elaborare progetti sul "nuovo Sudafrica". In questo
ambito nacque il Women's Health Project, dal 1991, che fece delle
ricerche, organizzò un centro di risorse e, dopo aver svolto per 3 anni una
serie di incontri con varie organizzazioni e donne individuali, nelle città e
nelle zone rurali, convocò una conferenza
politica, con l'obiettivo di elaborare proposte concrete per riforme
legislative nell'ambito della salute femminile. Dal gruppo
di lavoro della conferenza che trattava il tema dell'aborto uscì un documento (in
verità era il risultato di un lungo lavoro di rete con organizzazioni in varie
regioni del paese) che ebbe grande visibilità. Quando, alla fine del 1994, fu
istituito un comitato parlamentare
per analizzare la vigente legislazione sull'aborto, il documento della
conferenza fornì una chiara guida alle ONG per il lavoro di lobby che
comprendeva la partecipazione alle audizioni parlamentari pubbliche.[59]
Nello
stesso periodo, durante i lavori dell'ANC per la redazione del programma
elettorale, il tema dell'aborto era stato proposto da alcune rappresentanti
regionali e incluso nel programma, non senza causare il timore che una
posizione liberale potesse danneggiare il partito durante le elezioni. Nel 1994,
l'ANC aveva raggiunto la seguente posizione sull'aborto:
Ogni donna deve avere il
diritto di scegliere secondo le sue convinzioni personali se far interrompere
tempestivamente la gravidanza o meno.
Nello stesso modo, il personale sanitario ha il diritto di rifiutare di
partecipare all'interruzione della gravidanza, secondo le proprie convinzioni.[60]
Questa
posizione rifletteva le preoccupazioni riguardo all'accettazione del tema
dell'aborto da parte dell'elettorato e alla questione dei diritti religiosi e
della libertà di coscienza.
Durante le
audizioni del comitato parlamentare, i gruppi favorevoli alla liberalizzazione
dell'aborto ebbero grande influenza.
Le ONG per
i diritti umani, la salute e lo sviluppo si organizzarono nella Reproductive
Rights Alliance (RRA) e svilupparono diverse strategie per influenzare il
dibattito.
Si usarono
vari approcci per argomentare a favore della liberalizzazione dell'aborto. L'argomentazione
più importante, dal punto di vista sanitario, derivò da uno studio sui dati
riguardanti la mortalità e morbilità delle donne a causa di aborti. Si
prevedeva che l'accesso legale a servizi sicuri di aborto avrebbe ridotto le
spese sanitarie per interventi dovuti a complicazioni in seguito ad aborti
clandestini.
Un'altra
argomentazione riguardava l'equità razziale. Visto che
con la vecchia legge erano state soprattutto le donne nere a morire o ad essere
perseguite dalla giustizia per aborti clandestini, la liberalizzazione avrebbe posto
fine a questa discriminazione.
La RRA
richiedeva che anche le ostetriche potessero eseguire aborti, sempre per
favorire le donne povere (nere) per le quali l'accesso ad un medico era più
difficile.
I diritti
delle donne entravano in gioco soprattutto con la proposta di permettere
l'aborto a richiesta, dando la possibilità alla donna di decidere da sola,
senza dover chiedere l'autorizzazione ad un medico o ad un famigliare. Questa
clausola - che fu approvata nel testo definitivo della legge - è molto
significativa: infatti, le donne sposate secondo le leggi tradizionali (in
vigore parallelamente alle leggi dello Stato) erano considerate
"minori" e dovevano sottostare all'autorità del marito o, nel caso di
morte del marito, di altri parenti maschi.
Gli
oppositori della liberalizzazione erano meno organizzati ed erano spesso
rappresentati da bianchi che nel nuovo contesto sudafricano avevano poca
credibilità:
Anche se diverse delle
organizzazioni antiabortiste che testimoniavano durante le audizioni pubbliche
erano organizzazioni di infermieri o medici, i loro portavoce erano bianchi e
non potevano pretendere di parlare a nome della maggioranza. Le organizzazioni antiabortiste del personale
sanitario stabilivano legami con gruppi religiosi antiabortisti. Quando il
progetto di legge fu discusso in parlamento una ventina di gruppi antiabortisti
si riunì nelle manifestazioni della National Alliance for Life. Mentre
riuscirono ad ottenere una buona copertura mediatica non arrivarono comunque a
mobilitare i numeri che sarebbero stati necessari per essere presi sul serio
come lobby rappresentativa. Il portavoce dell'Alliance fu un medico. Però
era un uomo bianco e questo minava la sua legittimazione. Inoltre, un'attivista
per la libera scelta fece notare ai politici che una delle persone che
testimoniava a nome di quel gruppo era collegato a Human Life International,
un'organizzazione che era stata collegata ad attività della destra politica e
al traffico di armi negli anni '80.
Comunque,
non è certo che nel paese ci fosse una maggioranza favorevole alla
liberalizzazione dell'aborto. Un'indagine nazionale del 1995,
commissionata dall'Assemblea costituente e svolta su 1000 adulti sudafricani,
indicò che il 34% era contrario all'aborto in tutte le circostanze, il 45% era
favorevole alla legge in vigore e solo il 21% era a favore della libera scelta
per la donna. Inoltre, il 64% dei membri del sindacato infermieri DENOSA (Democratic
Nurses Organisation of South Africa) non sosteneva l'aborto. B. Klugman
spiega come si riuscì comunque ad approvare una legge molto liberale, con un
iter legislativo che in Sudafrica prevede audizioni pubbliche della commissione
parlamentare. La strategia prevedeva il coinvolgimento di religiosi favorevoli
all'aborto. Fu particolarmente efficace la testimonianza di una giovane donna
cattolica che aveva abortito a spese della Chiesa cattolica dopo che era stata
messa incinta dal suo consigliere spirituale. Inoltre si
cercò di controbattere all'argomentazione frequente che l'aborto fosse contrario
alla cultura africana, dimostrando con un lavoro di ricerca che in Sudafrica
erano stati eseguiti aborti per centinaia di anni, in tutte le classi e
culture. Klugman riferisce inoltre di un notevole
impegno delle attiviste per fare in modo che i deputati del partito maggiore
votassero secondo la linea del partito. Infatti,
la legge fu approvata grazie alla decisione dell'ANC di non permettere ai
propri deputati un voto di coscienza ma di votare la legge in blocco. Comunque,
61 dei 252 rappresentanti dell'ANC in parlamento scelsero di non essere
presenti al voto.[65]
3.3. I contenuti della legge
La legge,
entrata in vigore l'1 febbraio 1997, è una delle più liberali al mondo. Prevede la
possibilità per le donne di scegliere liberamente se
abortire nelle prime 12 settimane di gravidanza. In quel
periodo, l'aborto può essere eseguito anche da un'ostetrica che abbia seguito
un percorso di formazione specifico. Dalla 13a alla 20a settimana, l'aborto deve essere
eseguito da un medico ed è possibile solo a certe condizioni, le quali
comprendono la presenza di difficoltà socio-economiche. Dopo la 20a settimana, l'aborto è possibile
soltanto in caso di pericolo per la salute della donna o del feto e dopo aver
sentito un secondo parere medico o il parere di un'ostetrica autorizzata. Le
interruzioni di gravidanza nelle strutture pubbliche vengono effettuate
gratuitamente. Sono previste delle pene per chi esegue aborti senza le
qualifiche previste dalla legge.[68]
Il
preambolo della legge ribadisce i diritti garantiti dalla Costituzione:
Riconoscendo i valori della
dignità umana, il raggiungimento dell'uguaglianza, la sicurezza della persona,
il rifiuto del razzismo e del sessismo (non-racialism and non-sexism), e la
promozione dei diritti umani e delle libertà che stanno alla base di un
Sudafrica democratico;
riconoscendo che la Costituzione
tutela il diritto delle persone di prendere decisioni riguardo alla
riproduzione, di godere di sicurezza nel loro corpo e di avere il controllo
dello stesso;
e include
un forte riferimento ai diritti sessuali e riproduttivi:
riconoscendo che sia donne e
che uomini hanno il diritto di essere informati e di avere accesso a metodi di
regolazione della fertilità di loro scelta che siano sicuri, efficaci,
economicamente accessibili e accettabili, e che le donne hanno il diritto di
accedere a servizi sanitari adeguati per garantire una gravidanza e un parto
sicuri;
riconoscendo che la decisione
di avere figli è fondamentale per la salute fisica, psicologica e sociale e che
l'accesso universale a servizi sanitari per la salute riproduttiva include la
pianificazione famigliare e la contraccezione, l'interruzione della gravidanza,
come anche l'educazione sessuale e programmi di consulenza e servizi;
riconoscendo che lo Stato ha
la responsabilità di provvedere alla salute riproduttiva per tutti
e anche di provvedere a condizioni sicure per poter esercitare il diritto di
scelta senza paura o danni;
viene
specificato inoltre che "l'interruzione della gravidanza non è una forma
di contraccezione o di controllo demografico".
È piuttosto
evidente l'influenza del "rights-based approach", cioè del linguaggio
dei diritti umani promosso dalle organizzazioni non-governative in ambito
internazionale e fatto proprio in parte dai governi nelle conferenze internazionali
degli anni precedenti.
Nel testo
della legge rimane invece irrisolto il problema dell'obiezione di coscienza da
parte del personale sanitario. Nei primi progetti di legge era stato
previsto il diritto di obiezione di coscienza, bilanciato dall'obbligo di
riferire le pazienti a servizi disponili ad effettuare l'interruzione di
gravidanza. Nel testo definitivo, queste clausole sono state eliminate. Non sono
previsti né l'obiezione di coscienza, né l'obbligo per il personale sanitario
di effettuare aborti. A tutela del diritto di accedere all'aborto sono previste
le seguenti clausole:
6. Un donna che, ai sensi
della sezione 2 (1), richiede un'interruzione di gravidanza ad un medico o, nei
casi previsti, ad un'ostetrica autorizzata, deve essere informata dalla persona
a cui si è rivolta sui suoi diritti ai sensi di questa legge.
e
inoltre:
10. (1) Ogni persona che
(...)
(c) impedisce l'interruzione
legale della gravidanza o ostruisce l'accesso ad una struttura per
l'interruzione della gravidanza, si rende colpevole di un reato e sarà
condannata ad una pena pecuniaria o alla detenzione non superiore a 10 anni.
Secondo
una dichiarazione del Ministero della Sanità del 28 gennaio 1997
(...) i lavoratori sanitari
non sono obbligati a partecipare attivamente all'interruzione di gravidanza. Comunque, in un caso di emergenza, i lavoratori
sanitari devono partecipare per salvare la vita della paziente.[69]
Un altro aspetto problematico della legge è il fatto che
l'autorizzazione delle strutture che possono offrire il servizio di
interruzione di gravidanza è soggetta ai poteri di delega del Ministro della
Sanità.
3.4. L'attuazione della legge
Nel
suo Reconstruction and development programme (RDP), l'ANC aveva ribadito
la necessità di rendere i servizi di base (sanità, elettricità, acqua,
abitazione, istruzione, accesso alla terra) accessibili a tutti, per diritto. Questo
impegno contrastava con il programma Growth,
Employment and Redistribution (GEAR), introdotto
successivamente al fine di migliorare la stabilità economica che comprendeva
una
forte limitazione della spesa pubblica, influenzata dalla politica neoliberista
delle istituzioni finanziarie internazionali, e una posizione egemonica del
mercato nella società sudafricana in cui "lo stato opera innanzitutto per
lubrificare il mercato e correggerne le imperfezioni."[70] Oltre ad
ostacoli di carattere macroeconomico, il settore sanitario deve fare i conti
anche con le difficoltà della ristrutturazione e decentralizzazione. Secondo
una valutazione di Y.G. Pillay e P. Bond[71] del 1995,
non solo il "capitalismo sudafricano rimpiazza le divisioni puramente
razziali con le divisioni di classe più evidenti", ma esistono anche altri
ostacoli alle riforme governative:
I burocrati sono protetti
abbastanza bene e troveranno dei meccanismi per mantenere i privilegi
acquisiti, contrariamente a quanti hanno bisogno di servizi sanitari ma non
possono permetterseli, ai lavoratori di livello inferiore che ricorrono allo
sciopero e ad altri gruppi vulnerabili.
L'esplosione
dell'epidemia di AIDS comporta ulteriori gravi problemi per il servizio
sanitario pubblico. Nel 1992 il tasso di diffusione dell'AIDS era del 4%, nel
2002 era salito al 35%. La crescente pressione sulle strutture sanitarie, in
particolare sugli ospedali nelle zone rurali, porta ad un forte sovraccarico
del personale. Inoltre, il 16% dei lavoratori della sanità sono sieropositivi.
Una
delle "promesse" sopravvissute del RDP è il diritto alle scelte
riproduttive.[73] Hall e
Roberts, in uno studio molto dettagliato sul decentramento dei servizi di
salute riproduttiva pubblicato nel 2006, rilevano comunque come le limitazioni
sulla spesa pubblica incidano negativamente sui servizi garantiti dalla Costituzione.
Secondo le due studiose,
questi diritti si sono
materializzati soltanto per un numero limitato di donne. L'esistenza della legalizzazione non è mai un
indicatore sufficiente della disponibilità di servizi e questo è rivelato con
particolare evidenza nella valutazione dell'offerta di servizi di interruzione
di gravidanza.[74]
Anche
se la legge del 1996 prevedeva di rendere disponibili i servizi per l'aborto a
tutte le donne, in particolare in quelle zone che prima erano state
svantaggiate, permettendo che gli aborti nelle prime 12 settimane di gravidanza
fossero effettuati negli ambulatori e nei centri sanitari locali, lo studio
rileva che la maggior parte degli aborti viene eseguito negli ospedali. Nel 2000,
il 99% delle strutture pubbliche autorizzate ad eseguire l'interruzione di
gravidanza erano ospedali.[75]
Molte delle
strutture autorizzate, inoltre, non stanno effettuando il servizio. Dallo
studio di Hall e Roberts emerge che la non disponibilità dei servizi di
interruzione di gravidanza è dovuta sia alla mancanza di personale disposto ad
eseguirlo, sia al fatto che una parte del management non è disposta a sostenere
la formazione dei dipendenti. A volte i responsabili usano tattiche specifiche per
impedire il servizio: rendono indisponibili le sale operatorie, rifiutano di
nominare candidate e candidati per i corsi di formazione con la scusa della scarsità
di personale e rendono così impossibile la messa a disposizione di personale
qualificato per effettuare interruzioni di gravidanza.
Nel
KwaZulu-Natal, il 69% delle strutture autorizzate non effettuano il servizio,
che è offerto soltanto da 17 strutture. Il KwaZulu-Natal
è la provincia più popolata (10.014.500 abitanti), con il più alto numero di
donne (5.163.300), dove tra
il febbraio 1997 e il gennaio 2003 sono stati eseguiti soltanto 35.117 aborti,
il 12, 8% del totale. (Nel Gauteng,
la seconda provincia per abitanti, ma più urbanizzata, il numero degli aborti
nello stesso periodo è stato di 106.109, ca. il 40% del totale.) Nel
KwaZulu-Natal, una provincia dove a tutt'oggi il potere dei leader tradizionali
è forte, diffuso e patriarcale, quasi la metà delle donne ha partorito il primo
figlio al compimento dei 19 anni. Si tratta della provincia con la più alta
diffusione dell'HIV.
Il
maggior problema sembra essere la non disponibilità del personale di essere
coinvolto negli aborti.[79] Inoltre,
nel 2000, l'interruzione di gravidanza non era stata ancora inserita nel
curriculum di base degli istituti di formazione per infermieri e il numero di
ostetriche autorizzate erano appena 63. Queste ostetriche svolgono compiti di
formazione e si trovano negli ospedali. Per le donne che non abitano vicino
alle strutture autorizzate è quindi molto difficile accedere all'aborto.[80]
Nel
2002, uno studio nazionale rilevò che non c'erano state variazioni
statisticamente rilevanti nell'incidenza degli aborti incompleti: su ogni
100.000 donne tra i 12 e i 49 anni, 375 erano state ricoverate in ospedale nel
1994, e 362 nel 2000.[81] Lo studio
rileva un notevole calo nei casi di morbilità alta (9, 7% nel 2000 rispetto al
16, 5 % nel 1994) e una riduzione degli aborti nel secondo trimestre, ma
evidenzia come la diffusione degli aborti illegali sia ancora molto ampia. Le
interviste eseguite nell'ambito dello studio nella provincia del Gauteng
indicano una certa diffusione di conoscenze riguardo a metodi illegali per
abortire e l'esistenza di un'ampia rete di servizi "informali". Molte
donne non conoscono la legge o non sanno come accedere ad un aborto legale,
altre temono di essere trattate male dal personale o che la loro privacy non
sia garantita nelle strutture pubbliche. Alcune donne hanno affermato di non
aver usato il servizio pubblico a causa di una lista d'attesa oppure perché la
loro gravidanza era troppo avanzata.[82]
Per
la North-Western Province, dove ci sono 12 ospedali distrettuali e 2 ospedali
provinciali che offrono servizi di aborto, Hall e Roberts riferiscono le
seguenti difficoltà:
In un ospedale provinciale
(Mafikeng) le interruzioni vengono effettuate nell'unità riproduttiva, dove le
pazienti prima ricevono consulenza. L'unità
ha un'unico infermiere qualificato (uomo) e il servizio non è disponibile
quando lui è in ferie. Altri ospedali hanno simili problemi quando il personale
qualificato va in ferie. In un ospedale rurale (Ganyesa), dove lavora solo
un'infermiera qualificata, il servizio ha chiuso per un anno mentre
quest'infermiera seguiva un corso avanzato per ostetriche fuori dal distretto. Le
donne che richiedevano interruzioni durante quell'anno sono state mandate ad un
ospedale nel distretto sanitario vicino, a ca. 60 chilometri.[83]
Anche
se il trasporto verso un ospedale può costituire un problema, una delle persone
intervistate da Hall e Roberts, che effettua servizi di aborto in ospedale,
crede che sia meglio mantenere il servizio centralizzato perché in questo modo
per le donne è più facile passare inosservate. Visto che
il diritto all'aborto non è ampiamente accettato nelle comunità locali, le
donne corrono il rischio di essere emarginate da amici e parenti se si viene a
sapere dell'aborto. Questa affermazione è confermata dal numero relativamente
alto di donne che si presentano direttamente in ospedale evitando di farsi
mandare dal servizio locale. Diverse ostetriche e altri membri del personale
sanitario esprimono preoccupazione per il fatto che le ragazze giovani sembrano
usare l'aborto come contraccettivo. Dalle testimonianze emergono anche i
conflitti tra la legge e le culture locali:
"Quando è stata
introdotta la legge sull'interruzione di gravidanza, l'abbiamo spiegato ai
nostri guaritori tradizionali, perché nella nostra società l'aborto non è
socialmente accettabile e quando hai avuto un aborto, anche quando era
inevitabile, devi sottoporti ad un rituale di purificazione... ci hanno chiesto
di mandare loro le pazienti per il rituale di purificazione, allora tu pensi
che se la decisione spetta alla donna non possiamo diffondere quelle
informazioni e allora loro dicevano che quello era la causa della siccità, il
fatto che queste donne hanno abortito senza poi sottoporsi ad un rituale di
purificazione."[84]
Le
difficoltà descritte in questi studi recenti dimostrano che la presenza di una
buona legge non è sufficiente per cambiare gli atteggiamenti negativi contro
l'aborto che a volte sono radicate anche tra il personale sanitario. Secondo un'analisi
di Liz Walker del 1996,
effettuata sulla base di interviste fatte ad infermiere professionali di Soweto
tra il 1991 e il 1992, esistevano atteggiamenti negativi verso l'aborto tra le
infermiere che erano dovuti soprattutto alla loro identità di genere: dalle
loro testimonianze emergeva l'aspettativa di una "cultura della
responsabilità" legata al
ruolo materno, e nel caso di gravidanze non volute le donne incinte venivano
giudicate ambigue, false, egoiste e soprattutto irresponsabili per non aver
evitato la situazione.
Uno
studio del 2006,[87] eseguito
nella Provincia del Western Cape, indica la necessità di maggiori informazioni
sull'aborto tra le donne sudafricane. Il 32% delle donne del campione
esaminato non sapeva che l'aborto fosse legale; tra quelle che sapevano
dell'esistenza della legge poche erano a conoscenza delle limitazioni temporali
previste.
Un'analisi
effettuata su 22 workshops (per leaders e guaritori tradizionali, membri di
organizzazioni religiose, consiglieri municipali e personale sanitario) tenuti
tra il 2002 e il 2003 da IPAS South Africa in collaborazione con il Limpopo
Department of Health and Welfare nella Provincia del Limpopo - la Provincia
sudafricana con la percentuale più bassa di interruzioni legali di gravidanza
ma con la percentuale più alta di complicazioni gravi in seguito ad aborti
clandestini - dimostra però come sia possibile cambiare sia le scarse
conoscenze di uomini e donne riguardo alla fisiologia riproduttiva femminile e
alla legge sull'aborto, sia gli atteggiamenti negativi nei confronti di donne
che cercano di abortire.[88]
3.5. La legge di emendamento
Viste le difficoltà di accesso al servizio e la scarsità di
personale che effettua aborti, anche a causa dell'obiezione di coscienza,[89] nel 2004 è stata approvata una legge di emendamento
per dare la possibilità anche ad infermiere/i di effettuare interruzioni di
gravidanza dopo aver completato un percorso di formazione specifico. Inoltre,
il potere di concedere autorizzazioni alle strutture, che ai sensi della legge
spettava soltanto al Ministro della Sanità, doveva essere allargato ai membri
del Consiglio esecutivo della Provincia responsabili della sanità. La legge di
emendamento è stata però invalidata dalla corte costituzionale il 18 Agosto
2006, in seguito ad un ricorso dell'associazione Doctors for Life
International, per insufficiente consultazione a livello provinciale. L'ordine
di invalidazione della legge è stato sospeso fino al 16 febbraio 2008 per dare
tempo al parlamento di riapprovare la legge nel rispetto della Costituzione. Dalle
audizioni parlamentari, accessibili su internet[92],
emergono forti contrasti sul testo della legge stessa tra i vari gruppi della
società civile che hanno presentato le loro posizioni al comitato parlamentare
sulla sanità. Un precedente ricorso presentato dalla Christian
Lawyers Association of South Africa contro il Ministro della Sanità era
stato rigettato dalla Corte del Transvaal il 10 luglio 1998. I
ricorrenti chiedevano che la legge fosse dichiarata incostituzionale perché in
opposizione all'articolo 11 della Costituzione sul diritto alla vita. Il
ricorso era stato rifiutato con la motivazione che ai sensi della Costituzione
il feto non è una persona giuridica.[94]
3.6. Riflessioni sui diritti riproduttivi delle
donne in Sudafrica
L'accesso ad un aborto sicuro è soltanto un aspetto dei
diritti sessuali e riproduttivi.[95] In Sudafrica, i due ostacoli maggiori per la realizzazione dei diritti
riproduttivi sono la violenza contro le donne e l'AIDS, due fenomeni che
raggiungono purtroppo dimensioni drammatiche. Nel 2002, il
26, 5% delle donne incinte seguite negli ambulatori erano affette da HIV.[96] Un
rapporto di Human Rights Watch del 1995 analizzava il fenomeno della violenza
contro le donne evidenziando la preoccupante diffusione di stupri e violenze
sia al di fuori che all'interno di relazioni di coppia. Secondo
uno studio del 2004, in Sudafrica ogni sei ore una donna viene uccisa dal
proprio partner, il dato più alto mai rilevato al mondo.[98] Un
altro fattore importante è la difficile situazione economica in cui si trovano
molte donne e che molte volte le costringe a vendere il proprio corpo per
sopravvivere o a rimanere legate ad un partner per la propria sussistenza
economica. In questa situazione, molte donne non sono
capaci né di decidere sui propri rapporti sessuali né di imporre l'uso di
contraccettivi. Il rischio di una gravidanza non voluta è quindi alto,
soprattutto per le donne che già si trovano in difficoltà. In assenza di
servizi sociali adeguati, gravidanze indesiderate e la nascita di figli rendono
ancora più vulnerabili le donne e limitano ancora di più le loro possibilità di
uscire da situazioni in cui i loro diritti umani sono negati.
È evidente che una tale emergenza richiede notevoli
interventi sanitari, educativi e giudiziari che mirino a cambiamenti culturali. Un maggiore empowerment delle donne nei rapporti di coppia è uno dei
fattori fondamentali per prevenire situazioni di grande sofferenza e violazioni
dei diritti più basilari di integrità fisica. L'aborto non può certo essere
visto come un rimedio, né ad una violenza subita, né ad un'infezione con l'HIV.
Anzi, in questi casi sono richiesti interventi di consulenza e di cura
particolarmente sensibili e rispettosi della volontà riproduttiva della donna. È
comunque fuori dubbio che soprattutto per donne molto vulnerabili, come quelle
che hanno subito violenza, che sono state contagiate da un partner HIV-positivo
o che si trovano in una situazione economica precaria, sia particolarmente
importante non trovarsi davanti a difficoltà insormontabili, se decidono di
abortire. L'approccio della legge di emendamento che mira ad una diffusione più
capillare dei servizi è quindi senz'altro condivisibile e importante.
Come suggeriscono diversi studi,[99] è
molto importante indirizzare interventi formativi ed informativi anche agli
uomini. In particolare l'articolo di De Keijzer (che
analizza il lavoro di organizzazioni di salute riproduttiva in Messico)
dimostra come la somministrazione agli uomini di maggiori informazioni sulla
fisiologia riproduttiva femminile e sui diritti riproduttivi possa essere la
base di un vero cambiamento negli atteggiamenti di questi uomini nei confronti
delle loro partner. In Messico, come in altri paesi in via di sviluppo e anche
in Sudafrica, le strutture famigliari tradizionali e patriarcali hanno ceduto
il passo ad un mondo in cui molte donne crescono i figli da sole, spesso con
grandi difficoltà economiche, dove "gli uomini cercano delle donne che non
esistono più e le donne cercano uomini che non esistono ancora". L'erosione dell'autorità maschile tradizionale - esasperata nel
Sudafrica dell'apartheid e delle miniere con la separazione degli uomini
africani dalle loro famiglie - porta a situazioni di tensione e di conflitto tra
i generi che dovrebbero essere viste, come ogni crisi, sia come rischio sia
come opportunità di cambiamento. Ed è evidente che, per garantire i diritti
sessuali e riproduttivi delle donne, la cooperazione degli uomini è
indispensabile. Viceversa è ovvio che i diritti sessuali e riproduttivi degli
stessi uomini non potranno mai essere tutelati se non costruendo rapporti di
fiducia, rispetto e collaborazione con le donne.
4. L'aborto è un diritto umano?
Nelle conferenze del Cairo e di Pechino, l'aborto non era stato
"promosso" a diritto umano e questo viene tuttora celebrato come un successo
dalle forze conservatrici che si erano impegnate per frenare lo sviluppo dei
diritti sessuali e riproduttivi:
Quindi, non solo non esiste
una dichiarazione del Cairo e di Pechino che rappresenti un
"consenso" mondiale univoco e che istituisca l'aborto come diritto
riproduttivo, ma il linguaggio sull'aborto che è stato incluso nei documenti è
stato dibattuto con un tale successo dalle forze conservatrici e risulta quindi
talmente cauto che si può ben sostenere che impedisca categoricamente e
esplicitamente di considerare l'aborto un diritto. Semplicemente, dalle conferenze non è emersa nessuna
forte richiesta di diritti all'aborto. [101]
Nel decennio scorso è comunque cresciuta la consapevolezza che la
realizzazione dei diritti riproduttivi delle donne richiede la legalizzazione
dell'aborto e l'accesso ai servizi necessari. Mentre le
ONG di advocacy per i diritti delle donne vedono questi sviluppi con
speranza,[102] gli
oppositori sospettano un'erosione dei diritti umani portata avanti di nascosto.[103]
Nella loro analisi delle strutture di potere in relazione alla
problematica dell'aborto in Africa,[104] Tamara Braam e Leila Hessini esaminano le cause che fanno dell'aborto
un tema di contestazione politica:
È il potere patriarcale che
sta alla base dell'idea dell'aborto come questione contestata e politica. (...) Gli uomini sono visti come la norma, e le loro
esperienze di vita e i loro approcci sono spessissimo utilizzati come base
sulla quale determinare i bisogni sociali, formulare le richieste politiche e
assegnare le risorse. La conseguenza logica di una visione del mondo definita
al maschile e dominata da uomini è che quelle esperienze che non derivano
direttamente dalle esperienze maschili come la gravidanza, il parto, l'aborto e
la violenza contro le donne, non sono viste come aree prioritarie. Aree
critiche che hanno un impatto notevole sulla salute e sulle vite delle donne,
come l'aborto insicuro, non possono competere con le priorità tradizionali
dello sviluppo come la disoccupazione e la povertà. Non stiamo proponendo una
gerarchia dei bisogni sociali, ma crediamo che sia necessaria una
femminilizzazione dei temi dello sviluppo, dove la salute e i diritti sessuali
e riproduttivi delle donne sono considerate centrali per l'agenda di uno
sviluppo umano sostenibile.
Una femminilizzazione della politica viene richiesto anche da Martha C.
Nussbaum che nel suo libro Diventare persone affronta la questione se
l'approccio basato sui diritti umani sia sufficiente per garantire alle donne
una vita come persone. Nussbaum, che basa le sue
riflessioni sull'analisi dei bisogni reali di donne in situazioni di
sottosviluppo, propone in alternativa un approccio basato sulle capacità. Nel
suo elenco di 10 capacità fondamentali che ogni essere umano dovrebbe
raggiungere mette ai primi posti i seguenti punti:
1. Vita. Avere la possibilità
di vivere fino alla fine una vita umana di normale durata; di non morire
prematuramente, o prima che la propria vita sia stata limitata in modo tale da
essere indegna di essere vissuta.
2. Salute fisica. Poter godere
di buona salute, compresa una sana riproduzione; poter essere adeguatamente
nutriti; avere un'abitazione adeguata.
3. Integrità fisica. Essere in
grado di muoversi liberamente da un luogo all'altro; di considerare inviolabili
i confini del proprio corpo, cioè poter essere protetti contro le aggressioni,
compresi l'aggressione sessuale, l'abuso sessuale infantile e la violenza
domestica; avere la possibilità di godere del piacere sessuale e di scelta in
campo riproduttivo. (...)[105]
Nussbaum mette le capacità centrali al posto dei diritti:
non si possono violare le
capacità centrali per perseguire altri tipi di vantaggi sociali. [106]
L'approccio di Nussbaum, rispetto a quello dei diritti umani che
conosciamo dal 1948, ha il vantaggio di essere più concretamente verificabile
nel caso singolo. Benché segua un'impostazione liberale,
centrata sull'individuo, è molto efficace per quanto riguarda il campo dei
diritti economici e sociali e esplicita bene il concetto dell'indivisibilità
dei diritti, parte integrante del concetto dei diritti umani a partire dalla
conferenza di Vienna del 1993. Nel suo articolo "Is privacy bad for
women",[107]
Nussbaum inserisce l'aborto tra quelle tematiche che riguardano la libertà
personale e che devono essere "estricate dal pantano della 'privacy' per
essere affrontate su una via più diretta (...) Le libertà umane che sono in
gioco in questo dibattito sono troppo importanti per affidarle alla
privacy".[108] Infatti,
il diritto alla privacy che con la sentenza della Corte Suprema nel caso Roe
vs. Wade (1973) è stato usato negli Stati Uniti per garantire alle donne
l'accesso all'aborto è un'arma a doppio taglio perché è stato usato storicamente
per tutelare il dominio dell'uomo sulla donna all'interno della famiglia. Secondo Nussbaum, nel caso dell'aborto è in gioco "l'autonomia
decisionale o la libertà. Il problema è se una certa scelta determinante per la
vita sia, o non sia, aperta per una donna (o, nel caso della contraccezione,
anche per un uomo)".
Questa impostazione mi sembra centrale: il diritto
da difendere non è "il diritto umano all'aborto", ma il diritto umano
della libertà personale, oltre a quello dell'integrità fisica. I movimenti per
la legalizzazione dell'aborto stanno utilizzando anche il diritto umano alla
salute per difendere l'accesso delle donne all'aborto sicuro. Visto l'alto
numero di morti per aborto insicuro questo è senz'altro un approccio corretto,
in particolare per i paesi dove il sistema sanitario non tutela
sufficientemente la salute in gravidanza e durante e dopo il parto. Però,
rivolgendo lo sguardo soltanto alla salute e alla mortalità materna non si
mette a fuoco la dignità della donna come persona. L'approccio delle capacità
proposto da Nussbaum, in particolare il terzo punto sull'integrità fisica,
chiarisce molto bene che cosa serve per essere veramente persone.
L'aborto, pur essendo praticato da tempi lontani in tutte le culture,
quasi dappertutto costituisce un tabù.[109]
Visto che l'aborto è spesso vissuto dalla donna come una scelta obbligata che
in molti casi comporta notevole sofferenza oltre a fisica anche psicologica,
non sembra adeguato classificare l'aborto come diritto di cui
"godere".
La difficoltà di definire il ruolo dell'aborto nell'ambito dei diritti
umani si è percepito nel lungo dibattito interno ad Amnesty International nel
quale sono stata coinvolta direttamente. L'esito di questo
dibattito, cioè una posizione dell'ONG con restrizioni che ricordano il
protocollo africano del 2003 anche se molto più liberale,[110] e le
dure reazioni alla posizione raggiunta da parte di alcune istituzioni
religiose, dimostra che l'idea della piena autonomia decisionale della donna
sul proprio corpo non è ancora maggioritaria nella società civile. La legge sudafricana è da considerare un esempio molto avanzato di
rispetto dell'autonomia femminile, anche se i dibattiti parlamentari e gli
interventi della società civile nell'ambito della recente consultazione sulla
legge di emendamento dimostrano la presenza di una forte opposizione alla
legge.
Dobbiamo constatare che la tutela dei diritti riproduttivi delle donne
come parte integrante della loro integrità fisica e libertà di
autodeterminazione non è ancora entrata nel "mainstream" dei diritti
umani. Nel volume di Antonio Cassese, "I diritti
umani oggi",[111] non
vengono menzionati.
È senz'altro positivo che tali diritti vengano sempre di più
riconosciuti come importanti ai fini delle politiche di sviluppo, come abbiamo
visto nel caso delle correzioni ai Millennium Goals, espresse nel 2005.
Organizzazioni non governative come Human Rights Watch e Amnesty
International, impegnate da decenni nella lotta per i diritti umani e nella
promozione di tali diritti a livello della società civile potranno dare un
contributo importante.
Il fatto che stati come il Sudafrica li abbiano inclusi esplicitamente
nella Costituzione e nelle leggi è un altro passo avanti fondamentale sulla
lunga strada verso la loro realizzazione.
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