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Literaturwissenschaft

Iulm University - Milan - Italy

2015, Professor of Italian Literature

Jakob G. ©
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ID# 50375







Spettatori del romanzo

Saggi per una narratologia del lettore


Nota al testo


Sono inediti i capitoli I e IV. Il capitolo II fonde e rielabora due saggi editi, rispettivamente: “I Malavoglia come romanzo figuralizzato.” Allegoria XXVI, 69-70 (2014): 171-210 e “Le cornici di Mastro-don Gesualdo. Un’analisi e una proposta teorica.” Nuova rivista di letteratura italiana. XVIII, 1 (2015): 193-230. Il cap. III amplia: “Se, e come racconta la poesia di Vittorio Sereni.Vittorio Sereni, un altro compleanno. A cura di Edoardo Esposito.

Milano: Ledizioni, 2014. 43-57. Poche le modificazioni introdotte nei due saggi in appendice: “«Faccio delle cose coi libri», Calvino vs anni Settanta.” Enthymema 7 (2012): 401-08; “Come chiamarlo? 1912 + 1 e l’arte del ‘racconto’ in Sciascia.” Todomodo", IV (2014): 43-52.

Ringrazio Silvia Contarini e Monika Fludernik per i consigli preziosissimi su punti nodali della trattazio­ne (il loro contributo verrà puntualmente ricordato). Del tutto impossibile è invece nominare le molte persone con cui ho avuto utili confronti: a partire dai revisori anonimi delle riviste sopra ricordate, passando attraverso gli stu­denti delle scuole di dottorato (Messina e Salerno) e il pubblico, anche di colleghi, del Circolo filologico linguistico di Padova e della Scuola Superiore di Udine, a cui fra 2013 e 2015 ho presentato i primi risultati di queste ricerche.

Molto più che un ringraziamento mi sento infine di rivolgere al mio allievo Filippo Pennacchio, cui devo non poche imbeccate bibliografiche (e qualche preziosa consulenza grafica): senza il nostro pressoché quotidiano colloquio, la mia ricerca narratologica sarebbe stata, se non proprio impossibile, certo assai meno appassionante.


Cap. I

Introduzione


1. Una storia nella teoria narratologica


1.1. Il titolo lo dichiara a chiare lettere: questo è un libro innanzi tutto di teoria, e il suo do­minio è il discorso narratologico, la riflessione intorno ai modi di raccontare, in letteratura e nel cinema. Ma le teorie presuppongono altro, e ne sono presupposte. Se dovessi escogitare una definizio­ne sintetica capace di suggerire il senso critico complessivo dei saggi qui raccolti, mi piace­rebbe parlare di difetti dell’io.

Rovescerei così il titolo di un recente numero monografico del “verri” ­– Eccessi dell’io –, e farei in particolare riferimento al bel contributo di Daniele Giglioli (L’autore), che su una peculiare configurazione dell’io narrativo contemporaneo ha svolto importanti considerazioni. Sem­plificando e radicalizzando al massimo il discorso, potrei persino dichiarare che la letteratura narrativa di cui qui si parla si contrappone a tutto ciò che il dibattito sulla produzione italiana (e non) contemporanea sta proclamando, da un ventina d’anni a questa parte.

Se oggi l’ipertrofia dell’io romanzesco è arrivata al punto di colonizzare il discorso politico e storico – nella forma per lo più dell’autofiction –, la ‘finzionalità’ di cui mi occupo segnala il per­corso diametralmente opposto: ci mette in contatto con esperienze narrative che si lasciano condi­zionare dall’alterità del lettore, dalla spinta di uno sguardo terzo, che al limite è quello di una came­ra – sia essa fotografica o, più spesso, cinematografica.

Soprattutto: mentre oggi assistiamo a una riscossa dell’autore, a un suo ritorno, anzi al suo dilagare, alla sua rivincita sopra il narratore, la co­stellazione in cui questo libro si situa aveva l’ambizione di ridiscutere entrambe le istanze: tanto l’autore quanto il narratore. A dirla tutta, aveva l’ambizione di far piazza pulita di ciò che ‘crea’, ‘origina’ il discorso, che vuole platealmente appropriarsene.

Il proverbiale spostamento deit­tico di Hamburger e Banfield (ma anche di Benveniste e, in fondo, di Stanzel) induceva e induce a credere che il primum della narrativa sia la dislocazione dell’io dentro i fatti, la sua proiezione orto­gonale in una trama verbale che lo reifica, rendendolo persona fra persone, oggetto fra gli oggetti, al limite (appunto) disumanizzandolo.

Non io, ma self: la soggettività nei romanzi e racconti di Verga agisce rappresentando, raccontando un ascolto, un gesto percettivo: e addirittura è in grado di inter­pretare un experiencing totalmente virtuale, l’azione di una persona che non c’è, ma di cui cogliamo il lavorio recettivo in corso di svolgimento. Analogamente, le poetiche oggettiviste del camera eye affidano il proprio reporting a un’appercezione che imita quella della macchina da presa; e tuttavia, per ottenere questo paradossale risultato, devono attivare un narratore nascosto, una specie di metanarratore, un io in­somma così implicato negli oggetti da sembrare in loro balia.

Non insisto oltre su questo contrasto, che si presta a letture plurime, senza alcun dubbio, so­prattutto dal punto di vista storico-letterario1. È però curioso che l’azione ‘in levare’ di certi ogget­tivismi sia clamorosamente contraddetta dall’intenzione viceversa amplificante, cumulativa, di un modo au­toriale di concepire la letteratura che oggi va per la maggiore.

E importanti osservatori come Dawson (51-52) fanno risalire al 1988 di The Satanic Verses di Salman Rushdie l’inizio di questa ten­denza: costringendoci, pertanto, a prendere atto di discrimini storici ben più importanti. In un intor­no del 1989 comincia a diffondersi un massimalismo narrativo che fa perno sull’aumentato peso della voce narrante onnisciente; parallelamente, anche i modelli narratologici vanno incontro a una trasformazione.

Il rapporto causa-effetto appare evidente, insieme con il radicamento in una crisi epocale.

Ci si chiede: può la teoria essere così passiva di fronte alle emergenze del letterario che tut­ti i giorni si fa, e sentirsi costretta a cambiare i propri paradigmi in presenza di mutamenti di breve o medio-breve periodo? Non è una domanda da poco; né credo, purtroppo, che questa introduzione sappia darle una risposta soddisfacente. Qualcosa nondimeno diremo, e stiamo dicendo.

Resta il fatto che – appunto – questo non è un libro solo di teoria, e anzi la motivazione sto­rico-letteraria è prevalente nel primo dei saggi, quello sui Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. L’i­potesi di lavoro era lumeggiare correttamente la tecnica narrativa del verismo verghiano sullo sfon­do del Modernismo internazionale, argomentando la sua appartenenza di diritto e di fatto allo scena­rio della cosiddetta situazione narrativa figurale.

Ma la storia è subito costretta, in questo caso, a fare i conti con la teoria, e senza l’aiuto del libro di Ann Banfield, Unspeakable Sentences, non sarebbe stato possibile venire a capo di una questione a tal punto decisiva da sembrare persino ovvia (quale autore è tanto narra­torless quanto il Verga maggiore?).

Analogamente, il saggio sulla narratività (o finzionalità: ci tor­neremo) nella poesia di Sereni prende le mosse da un’idea storicamente fondata di Enrico Testa, secondo il quale un certo modo di fare poesia diffusosi in Italia a partire dagli anni Sessanta determina una crisi del ‘lirico’, della ‘lirica’ in quanto discorso dell’io, e il conseguente protagoni­smo di istanze terze quali sono, per definizione, quelle dei personaggi, in particolare delle loro paro­le pronunciate.

Insomma, in questo caso la teoria ha reclamato le opere, le ha costrette a prendere – letteralmente – posizione, una posizione. Eppure, come si vedrà, ambizione dello scrivente è anche cogliere, più che la nasci­ta, l’evoluzione del camera eye, la sua ‘naturalizzazione’ presso la sensibilità dei lettori contempo­ranei. La teoria, raggiunti i testi, non può non vederne – poi – l’evoluzione nel tempo, e additare quindi la loro perdurante resistenza a un’interpretazione troppo rigida.


2. Modi della figuralità verghiana


2.1. La lunghezza del capitolo su Verga dice della complessità delle questioni messe in campo, a dispetto appunto di una serie di considerazioni almeno apparentemente intuitive. A ben guardare, molte delle mie notazioni mettono a partito un tipo di ragionamento che una settantina d’anni fa era stato realizzato (sempre ai confini fra storia e teoria) dall’Auerbach che sontuosamente chiudeva Mimesis con il memorabilissimo saggio su To the Lighthouse di Virginia Woolf.

Penso ai luoghi in cui è descritto il «trattamento polifonico» del racconto (II, 324); segna­tamente al seguente passo:


L’intento di avvicinarsi a una vera realtà obiettiva con l’aiuto di molte impressioni soggettive avute da molte persone (e in momenti diversi), è una caratteristica essenziale del procedimento moderno qui trattato, che si di­stingue così radicalmente dal soggettivismo unipersonale, che cede la parola a una persona sola, quasi sempre molto caratteristica, e il cui modo di considerare la realtà è l’unico che vale. (II, 320)


Dove dunque si insiste su una specie di necessaria coralità della rappresentazione altrimenti detta figurale (figural in inglese; personale in tedesco): etichetta, questa, con cui è designato un racconto che non è enunciato da una voce bensì è filtrato attraverso l’esperienza dei perso­naggi, attraverso il loro mondo percettivo. Ora, Auerbach nei fatti si opponeva fin dal 1946 a quel trend che viceversa risulta dominante, a partire dalla Teoria della letteratura di pochissimi anni successiva, 19492 – di René Wellek e Austin Warren (212-25): il cui capitolo che nel te­sto originale suona The Nature and Modes of Narrative Fiction tratta in maniera monistica del per­sonaggio-riflettore.

E l’austriaco Franz K. Stanzel, che nel 1950-51, borsista a Harvard, ave­va assistito al dibattito americano intorno al nuovissimo volume3, proporrà un’idea di figuralizza­zione, di reflector mode, rigorosamente «unipersonale», incentrata su un protagonista, e anzi di fatto ostile a ogni forma di rappresentazione collettiva.

E ciò semplicemente perché – dichiara la studiosa – «group’s opinions are unlikely to be synchronized in this manner» (Towards 168): secondo una petizione di principio, affatto separata dall’evidenza dei testi4. Un caso per lo meno curioso, al limite del lapsus, si verifica poi in uno dei saggi sul punto di vista più importanti in assoluto prodotti dalla scholarship narratologica degli ultimi – diciamo – vent’anni.

Mi riferisco all’intervento di Manfred Jahn (More Aspects). È qui esposta un’opinione, di nuovo, deduttiva, non suffragata da alcun dato positivo: vale a dire che un testo è più ‘strettamente’ focalizzato (si parla infatti di «strict focalization») se è in gioco la messa a fuoco su una sola persona. E sulla scia di Stanzel e Fludernik, vi si dà per scontato (99) che la focalizzazione dello stesso oggetto a carico di più centri deittici possa essere gestita esclusivamente da un narratore autoriale.

Che l’argomento sia sentito come ostico, è poi argomentato indirettamente dalla definizione di «ambient focalization», che dovrebbe costituire la tipica situazione verghiana. Qui – dichiara Jahn e per maggior chiarezza traduco – «il campo della soggettività si manifesta come un’ellisse: alla stregua di un’ellisse geometrica, che ha due fuochi, la focalizzazione ambientale è determinata da due (o più) centri focali» (98).

Il lapsus è fin troppo chiaro, posto che nessuna ellisse può avere più di due fuochi! Come dire: la resa spaziale di un racconto pluriprospettico appare di fatto impraticabile nella produzione teorica, quasi naturalmente monocentrica, della scuola di Stanzel.

Eppure, che sia possibile una ‘situazione narrativa’ di questa specie è stato più volte sugge­rito, anche solo implicitamente: a partire per lo meno dalla «multiple selective omniscience» di Norman Friedman, passando attraverso il «type narratif actoriel» elaborato da Jaap Lintvelt, che prevede una focalizzazione interna variabile cosiddetta «polyscopique», quando diversi personaggi percepiscono lo stesso oggetto.

Il tipo di soluzione da me proposto non sembra aver precedenti altrettanto approfonditi e si­stematici. A parte Auerbach, mancano esemplificazioni articolate di una figuralità policentrica. Cer­te difficoltà metodologiche si compendiano, forse, nell’idea difesa da Susan Lanser (Fictions 21 e 256 sgg.) di una «communal voice», caratteristica soprattutto di certi racconti al femminile.

L’illustrazione in sen­so stretto narratologica da lei realizzata è deludente, perché prevede di fatto queste tre possi­bilità: o l’esistenza di un narratore che parla a nome di una comunità, oppure l’azione di una voce alla prima persona plurale (una «we narrative»), oppure l’adibizione di una «sequential form in which individual members of a group narrate in turns» (21).

Quest’ultimo caso coincide con la focalizzazione interna multipla di Genette (Figure III 237). Come si vede, si tratta di mec­canismi narrativi molto estrinseci, persino plateali: la comunità di Lanser sembra chiedere narratori forti, anche quando sopraindividuali. Laddove per noi in gioco è, viceversa, la definizione di un mondo diegetico narratorless.


2.2. Quelli di Verga e della sua ‘tradizione’ (in anni recenti uno spin-off tanto corposo quan­to godibile è costituito da Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo) sono racconti a focalizza­zione interna variabile, in cui il punto di vista di un gruppo prevale su quello dei singoli personaggi. Sia chiaro: ciò non significa affatto che la focalizzazione interna attraverso caratteri isolati venga esclusa; anzi, il metodo collettivo deve valorizzare (deve sbalzare) l’apporto dell’in­dividuo.

Il quadro teorico suscettibile di dare conto di questa condizione è stato offerto da una studiosa che certo non per caso molto si è occupata di Virginia Woolf. Il concetto di «non-reflective con­sciousness» elaborato da Ann Banfield (Unspeakable), implementando la vecchia idea di percezione indiretta libera, consente di interpretare in modo adeguato uno stile narrativo in cui siano in scena due o più personaggi senzienti e parlanti, capaci di modellare con la loro azione focalizzante tutte le componenti della storia (eventi ed esistenti, per intenderci).

Coralità, in questo senso, significa mol­to semplicemente che il racconto è la rappresentazione obliqua della maniera in cui una comunità sente il mondo, il mondo in cui vive.

Perno verbale di questa strategia è l’imperfetto (e il trapassato prossimo, va da sé) nella sua aspettualità continua. Una caratteristica notevole del tipo morfologico in oggetto è «rendere sfumati i contorni temporali degli eventi, permettendo […] quei tipici risultati di parziale sovrapposizione tra gli eventi, che costituiscono un’importante differenza nei confronti dei perfetti» (Bertinetto, Il verbo 52).

Un banalissimo esperimento che si può proporre è riflettere su cosa succede nel breve testo:

Carlo era di fronte alla finestra. Pioveva.


Il predicato Pioveva è colto dal lettore più come prolungamento del personaggio Carlo, come resoconto delle sue sensazioni, che non come enunciato a carico di un narratore. In questo senso, Pioveva è una specie di discorso indiretto libero che ci mette di fronte a ciò che il personaggio non tanto pensa quanto ‘vive’, entro quella dimensione – ci ricorda Banfield (197) – che Sartre definì non-tetica. È importante poi osservare (e forse non sono necessari esempi) che se più persone si trovano nella stessa situazione del nostro Carlo, la frase Pioveva esprime la loro esperienza collettiva.

Vale a dire: «Tutti sentivano che stava piovendo». Percezione indiretta libera o non-reflective consciousness – appunto.

Non solo, e in modo peraltro decisivo: nel verismo le coscienze non riflessive tendono – di­remmo noi oggi – a fare rete, a interagire tra loro in modo complesso; i personaggi vedono e sono visti a un tempo, e la loro realtà è plasmata da un ricco interplay di sensazioni fisiche e mentali. Per il pubblico italiano l’esempio paradigmatico è il secondo capitolo dei Malavoglia, in cui un’intera co­munità mostra se stessa e il luogo in cui vive, senza che mai un narratore onnisciente si prenda la briga di rendere esplicito quanto noi lettori veniamo a conoscere in modo implicito.

Banfield, Describing), anche nel senso che dipende da una collocazione nel­lo spazio di natura virtuale. E che questo fuoco non necessariamente antropomorfo abbia a che fare con una cinepresa potenziale, avvenire, a me pare persino troppo ovvio: in particolare se pensiamo che un Verga pre-cinematografico è in qualche modo legittimato dalla sua notoria passione per la fotografia.


2.3. Banfieldiano come i primi due è anche il terzo frame ‘riflettorizzante’ qui messo in campo: quello che suggerisce un ascolto. Nella situazione narrativa figurale verghiana sono frequentissimi i passi in cui l’azione del raccontare non è realizzata in modo diretto, me­diante un narratore, ma si manifesta attraverso ciò che, di un certo atto narrativo, un ascoltatore prototipico (semplificando: un ascoltatore medio) ha elaborato percettivamente e mentalmente.

Come è stato detto5, quello verghiano sembra spesso il racconto di un racconto, un racconto di secondo grado. Ad esempio, nell’ultimo capitolo dei Malavoglia padron ’Ntoni esce di scena nel modo che qui sotto leggiamo (rr. 291-306); e si noti subito che il resoconto delle sue estreme vicissi­tudini dentro il paese è introdotto da un enunciato fin troppo palesemente narrativo («Così padron ’Ntoni se ne andò»).

Sulla strada del Nero, nel passare davanti alla casa del nespolo, e nell’attraversare la piazza, padron ’Ntoni continuava a guardare di qua e di là per stamparsi in mente ogni cosa. Alfio guidava il mulo da una parte, e Nunziata, la quale aveva lasciato in custodia a Turi il vi­tello, i tacchini, e le pollastre, veniva a piedi dall'altro lato, col fagotto delle camicie sotto il braccio.

Al vedere passare il carro ognuno si affacciava sulla porta, e stava a guardare; e don Silvestro disse che avevano fatto bene, per questo il Comune pagava la sua rata all’ospedale; e don Franco avrebbe anche spifferata la sua predica, che ce l’aveva in testa bella e fatta, se non ci fosse stato lì presente don Silvestro. – Almeno quel povero diavolo va a stare in pace, conchiuse lo zio Crocifisso.

La frase iniziale – storica, singolativa, oggettiva – lascia presto spazio al coinvolgimen­to dei personaggi, propiziato dalla trama degli imperfetti. Balza all’occhio «il giorno in cui Alessi era andato a Riposto», che avrebbe potuto far parte del discorso narrativo pri­mario. Vale a dire, in un racconto ‘naturale’ ci saremmo aspettati (e lasciamo perdere la ripetizione):



L’azione del narrare è dunque a sua volta focalizzata, messa in prospettiva, filtrata attraverso la cognizione del paese, che si è sentito raccontare ­ – che sa – che le cose sono andate in quel modo.

In simili casi siamo messi in contatto con la rappresentazione dell’ascolto di un gesto narra­tivo, con la ricezione di un tu oggettivato. Come Banfield insegna, nel mondo del «represented speech and thought» e della «non-reflective consciousness», se l’io si aliena nella terza persona del self, il tu, a sua volta, da destinatario della comunicazione ordinaria, diventa hearer, istanza interna che condiziona la superficie linguistica del testo, enfatizzando la pressione delle forme dell’indiretto libero.

La deissi è cioè affetta dalla ricezione di un ipotetico atto narrativo primo. Nel passo appena letto, ripeto, il resoconto diretto è realizzato in una forma canonica, nel primo enun­ciato; ma ben presto si trascorre alla messa in scena di tutto che ‘si era detto’ – presso la comunità – a proposito della fine di padron ’Ntoni.

Siamo talmente coinvolti in una realtà in cui la restituzione di ciò che altri hanno detto svolge un ruolo cruciale, che quasi non ci rendiamo conto della cornice in cui collochiamo la nostra attività, la nostra fruizione. Eppure, se ad esempio leggiamo questo passo tratto da un notissimo romanzo, Il cane di terracotta (1996) di Andrea Camilleri, in cui ci imbattiamo nell’ascolto e visione di un programma televisiva da parte del commissario Salvo Montalbano,

Il direttore, ancora chiaramente emozionato, disse che una giovane donna bellissima, Gesù che donna!, pareva finta pareva, una sorta d’indossatrice come quelle che si vedono nei rotocalchi, Gesù quant’era bella!, chiara­mente straniera perché parlava un cattivo italiano (“Ho detto cattivo? Mi sono sbagliato, sulle sue labbra le no­stre parole sembravano miele”), no, sulla nazionalità non poteva essere preciso, tedesca o inglese, quattro gior­ni avanti s’era presentata all’agenzia (“Dio! Un’apparizione!”) e aveva domandato dell’aereo.

Montalbano se la godé. Glielo aveva raccomandato a Ingrid.

“Ti devi fare ancora più bella. Così le persone, quando ti vedono, non capiscono più niente.” (389-90)


forse possiamo intuire meglio che il romanzo contemporaneo è pieno di indiretti liberi variamente manipolati con i quali è messo in forma il modo di recepire – per esempio – un contenuto radiofoni­co o televisivo (ma anche il testo di un quotidiano, se è per quello) da parte del centro deittico costi­tuito da un personaggio.

Non casualmente, del resto, poco sopra ho scritto e sottolineato la parola cornice. Per un at­timo, si viene presi dalla tentazione di aggiungere ai frame narrativi ‘naturali’ suggeriti da Monika Fludernik (Towards) acting, telling, experiencing, viewing, reflecting – una nuova inva­riante: hearing. La studiosa austriaca ha proposto con quelle cinque azioni verbali gli atteggiamenti astorici, creaturali, per certi versi innati, assunti da autori e lettori davanti alle opere narrative.

Ecco, a me pare possibile immaginare che nel mondo del racconto scritto sia conservata anche l’espe­rienza dell’ascolto – e dell’ascolto in particolare di una voce narrante – come una delle sue peculiari­tà irrinunciabili.


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